I politici che si vaccinano in diretta televisiva, come ha fatto il presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden, mandano un sacrosanto messaggio di rassicurazione su una procedura che genera, in una minoranza della popolazione, sentimenti che vanno dalla generica titubanza all’aperta ostilità. Ben vengano dunque le esibizioni a scopo informativo e di sensibilizzazione di quanti più leader possibili, ché informare e sensibilizzare sono attività non secondarie per chi si dedica alla cosa pubblica. 

Ma i politici dovrebbero vaccinarsi, e dovrebbero farlo il prima possibile, non soltanto in qualità di testimonial e promotori di una cruciale campagna di sanità pubblica, ma in quanto garanti della continuità istituzionale e rappresentanti del popolo, che continua a essere sovrano anche a dispetto delle brutture provocate dall’ismo corrispondente (gli ismi fanno spesso questo effetto).

Il concetto lo ha espresso bene la deputata americana Alexandria Ocasio-Cortez nella story di Instagram dove ha raccontato in presa diretta la sua vaccinazione, spiegando con abbondanza di dettagli tutta la procedura, dalla modulistica alle statistiche sulle reazioni allergiche e i lievi effetti collaterali più comuni.

La parte più significativa del racconto è però l’inizio, dove spiega che i membri del Congresso hanno diritto alla vaccinazione in via preferenziale in virtù di un “piano per la continuità del governo”, disciplinato da una direttiva presidenziale diramata nel 2016. In sostanza, i rappresentanti possono vaccinarsi prima di altre categorie in ragione delle loro responsabilità. Se si ammalano e non possono esercitare le loro funzioni di rappresentanza è il popolo che rappresentano il primo a essere danneggiato.

Questo passaggio ha destato qualche nervosismo. La deputata Ilhan Omar, alleata di Ocasio-Cortez nella “squad” delle deputate della turbosinistra, non l’ha presa bene, ha detto che non si vaccinerà prima di altre categorie più deboli ed esposti ai rischi, perché «noi non siamo più importanti» degli operatori sanitari e degli insegnanti che rischiano la vita ogni giorno.

Si tratta di un riflesso pavloviano populista molto diffuso anche dalle nostre parti. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, rispondendo a un meritorio appello del Foglio per una campagna di vaccinazione pubblica dei politici, ha tenuto a specificare che lo farà, ma «senza scavalcare nessuno» e più o meno tutti i rappresentanti  che si sono detti pronti a fare il vaccino in pubblico hanno aggiunto locuzioni cautelative per assicurare che non useranno i loro privilegi per saltare la fila. 

Ecco l’inghippo logico e politico: garantire il corretto funzionamento delle istituzioni dovrebbe essere una priorità in tempi ordinari, e a maggior ragione in tempi emergenziali, ma la confusione fra responsabilità e privilegi ha indotto l’idea che il politico che si vaccina prima di altri sta abusando del proprio potere. Certo, gli abusi ci sono e ci saranno sempre (guardarsi da chi promette mondi perfetti), ma il principio della salvaguardia delle istituzioni democratiche dovrebbe prevalere sul rischio che qualcuno ne approfitti.

Vent’anni di retorica anticasta martellante e trasversale hanno distorto la prospettiva sulla funzione dei politici, che è innanzitutto servizio e responsabilità, inquinando il dibattito con espressioni demenziali come “furbetti” o con correlativi oggettivi a basso costo come le auto blu e le poltrone, emerse dalla convinzione che il popolo non capisca e abbia perciò bisogno dei disegnini. Ci voleva una deputata americana con inclinazioni antisistema per ricordarci che ci sono ottime ragioni perché i politici siano fra i primi a ricevere il vaccino.

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