Il direttore Stefano Feltri, in un articolo apparso il 29 aprile, ha posto una questione importante. Ovvero: negli Stati Uniti sta avvenendo la più grande revisione dell’impianto politico-ideologico del Partito democratico degli ultimi 30 anni, eppure nella sinistra italiana non vi è traccia di dibattito su ciò che accade oltre-oceano.

Lo stupore è doppio: non solo non se ne coglie la portata, ma i nostri politici non cedono a una loro abitudine, quella di giocare a “fare l’americano”. Le ragioni sono da rintracciare in cinque aspetti.

Primo. I politici e i commentatori italiani conoscono poco gli Stati Uniti. Non gli interessa conoscerli fino in fondo: un po’ per pigrizia; un po’ per eccesso di realismo: a che serve conoscere?

I voti si prendono ad Avezzano e ad Asti, non a Cleveland (idem per l’acquisto dei quotidiani); un po’ per malafede: l’America è giusto uno dei tanti supermercati dei simboli post-ideologici ai quali servirsi per combattere battaglie interne. 

Si usa ma come soprammobile, in una coazione a ripetere dello schema del “Paese fratello”: peccato che poi si finisca per non saper nemmeno tradurre gli slogan che arrivano da lì (Walter Veltroni, nel 2008, riuscì a tradurre lo “Yes, We Can” di Barack Obama in “Si può fare”, perdendo clamorosamente il senso del “We”).

I senza potere 

Secondo. Gli interessi organizzati dei “senza-potere” - o di chi ne ha meno - non sanno, non possono o non vogliono costruire movimenti e pressione su una scala superiore. Pensiamo invece agli Usa: Black Lives Matter, la battaglia sindacale per l’aumento del salario a 15 dollari, i movimenti ambientalisti… e via discorrendo. Grandi movimenti che pesano.

In Italia le tante organizzazioni che promuovono questo tipo di interessi sono piccole, oppure scollegate, oppure senza competenze organizzative adeguate a far da lievito per l’emersione di una pressione adeguata ai loro progetti. Il sindacato è politicamente afono: quello americano finanzia le campagne elettorali degli eletti democratici, che poi si allineano alla richiesta di aumento dei salari (per convinzione e convenienza).

Mentre interessi organizzati “padronali” vanno al mercato della politica senza remore, i sindacati vivono ancora la favola dell’autonomia fra sindacale e politico.

Terzo. Il Partito democratico americano, che oggi esprime quel cambiamento, è un partito che possiede una cultura politica. Mentre i partiti europei perdevano mordente ideologico, quelli americani si sono attrezzati alla guerra delle idee.

I democratici hanno scelto la via centrista negli anni Novanta, ma poi hanno dovuto rispondere al fuoco conservatore e costruire una offerta politica adeguata alla domanda di cambiamento.

Il Partito democratico italiano nasce fuori fase: nel 2007 aspira a essere indefinito partito pigliatutto, credendo che il mondo andasse in direzione di una “normalità” centrista e non conflittuale.

Poi è arrivata la crisi del 2007/2008, che ha radicalizzato la società americana e fatto crescere la domanda di nuove politiche pubbliche. Nel frattempo, però, il suo omonimo italiano scambiava le primarie per un’ideologia e rinunciava alla produzione di cultura politica, viatico indispensabile per mantenere la pax correntizia.

Dopo la Grande crisi finanziaria

Quarto. Il Partito democratico italiano ha perso, per scelta, quel treno della crisi del 2007. Negli Usa, in Gran Bretagna, in Spagna… specifiche categorie sociali - pensate ai giovani, mai non solo - hanno pagato subito il peso della crisi, producendo un pensiero più radicale, anche in ambienti tradizionalmente più moderati.

Quella frattura ha prodotto una radicalizzazione di ampie porzioni del Partito democratico e del Partito laburista; in Spagna ha generato Podemos. La rabbia verso quello che Occupy Wall Street definiva «l’1 per cento» ha assunto, in Italia, la forma del populismo impolitico del Movimento Cinque stelle, che ha però trovato il modo di rappresentare anche interessi reali (pensiamo al reddito di cittadinanza). Il Pd è, invece, un partito che rappresenta soprattutto “integrati”.

Quinto. C’è un fiancheggiamento passivo del centrismo tecnocratico europeo. E’ vero, per Biden è più facile mettere al centro spesa pubblica e nuovo welfare («l’investimento in infrastruttura umana»), perché stampa il denaro che vuole. I democratici italiani, al massimo, si affidano a Mario Draghi - un “modernizzatore” molto moderato - perché sanno che può contrattare con l’Europa gli investimenti a debito che stiamo negoziando.

Dato questo principio di realismo cui si è votato, perché usare Biden? Si mostrerebbe soltanto la distanza fra un pensiero progressista moderno e la mancanza di elaborazione italiana. L’elaborazione che Biden ha prodotto, evolvendo, per rispondere al mondo del 2021.

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