Sabato scorso, alla conferenza dei banchieri centrali di Jackson Hole, il presidente della Fed, Jerome Powell, ha reso esplicito che l’obiettivo di inflazione al 2 per cento è incondizionato, quindi da perseguire anche costo di causare recessione e disoccupazione: la Fed continuerà ad aumentare i tassi oltre il livello considerato neutrale nel lungo periodo, e per tutto il tempo necessario.

Dopo il picco

L’inflazione ha probabilmente toccato il picco, ma a luglio rimaneva ben al di sopra dell’obiettivo della Fed: 8,5 per cento l’indice generale dei prezzi al consumo; 5,9 esclusi energia e alimentari; e 6,3 il deflatore dei consumi.

I mercati hanno reagito come prevedibile: borsa giù; apprezzamento del dollaro; e inversione della struttura dei rendimenti dei titoli stato (tassi a breve più alti di quelli a lungo termine).

Se la politica dichiaratamente anti-inflazionistica della Fed causerà una recessione e riuscirà a riportare stabilmente l’inflazione al 2 per cento è oggetto di opinioni contrastanti.

La stessa Fed ha ammesso di non avere un modello valido di comprensione dell’inflazione (infatti è stata colta di sorpresa), quindi non si capisce come possa prevedere l’effetto delle sue decisioni e che, nel prossimo futuro, dipenderanno dai dati, invece di anticiparli.

A luglio c’erano oltre 11 milioni di offerte di nuovi posti di lavoro, due per ogni disoccupato: il rapporto più alto mai registrato da quando viene rilevato il dato.

Verso la recessione?

A currency trader watches monitors near screens showing the Korea Composite Stock Price Index (KOSPI), left, and the foreign exchange rate between the U.S. dollar and South Korean won at a foreign exchange dealing room in Seoul, South Korea, Thursday, Aug. 18, 2022. Asian stock markets followed Wall Street lower Thursday after the Federal Reserve said U.S. inflation is too high, suggesting support for more aggressive interest rate hikes. (AP Photo/Lee Jin-man)

Parlare di recessione, se si guarda al mercato del lavoro, parrebbe fuori luogo. Ma questa stessa situazione lascia presagire una forte crescita salari, contribuendo all’inflazione dal lato dei costi e, di conseguenza, potrebbe imporre aumenti dei tassi per un periodo più lungo di quanto scontato dai mercati.

Anche perché le imprese riescono a trasferire a valle i maggiori costi: gli analisti si aspettano un margine operativo lordo delle imprese S&P 500 del 21,3 per cento nel 2023, in aumento dal 21,1 stimato per quest’anno, e al 19,3 medio degli ultimi 15 anni.

Questo conferma che parlare di recessione sembra essere insensato; ma frenare l’inflazione in un simile stato dell’economia richiederà un’azione forse più incisiva del previsto.

A luglio, la caduta della fiducia dei consumatori e delle vendite al dettaglio si è arrestata, stabilizzandosi. Lo shock energetico aumenta il costo della benzina ma, a differenza dell’Europa, dà un forte impulso a profitti e investimenti, visto che gli Usa sono il maggior produttore di petrolio e gas naturale.

L’aumento dei tassi sgonfia il boom immobiliare, un settore che negli Usa conta il 20 per cento dell’economia, indotto incluso; ma non ci sono gli eccessi finanziari che in passato hanno causato crisi sistemiche. L’aumento dei tassi, per quanto prolungato e incondizionato, certamente causerà un rallentamento ma, di per sé, dubito recessione e disoccupazione, stante la situazione macroeconomica.

Incognita liquidità

Tutta l’attenzione è sui tassi, ma la vera incognita è la riduzione della liquidità che la Fed perseguirà a partire dal 1 settembre: non rinnoverà 95 miliardi al mese di titoli che scadono, sottraendo al mercato finanziario quasi 1.200 miliardi in un anno, allo scopo di ridurre gli 8.500 miliardi di titoli che oggi ha in portafoglio.

Con quali conseguenze nessuno può dirlo con certezza visto che non ci sono esperienze pregresse sulla fine di un quantitative easing di dimensioni simili.

La Fed ha iniziato la lotta all’inflazione con colpevole ritardo, ma agisce in un contesto economico ancora favorevole, che facilita ogni sua decisione.

Situazione diametralmente opposta quella della Bce, che nella riunione del prossimo 8 settembre dovrà prendere la sua decisione sui tassi.

A differenza degli Usa, l’inflazione nell’Eurozona non ha ancora toccato il massimo, in aumento al 9,1 per cento in agosto rispetto all’8,9 di luglio (al 4,3 dal 4,0 quella core).

Il caro energia comprime i margini delle imprese ed è fortemente recessivo, specie se si materializzerà il rischio razionamento. La disoccupazione è quasi il doppio che negli Usa e non ci sono segnali di spinte salariali.

La svolta anti inflazionistica della Fed mette la Bce in una posizione difficile. Se non la segue sulla strada dei rialzi dei tassi (magari con un aumento dello 0,75 alla prossima riunione come richiesto da alcuni suoi membri) per evitare il rischio di recessione e disoccupazione e perché sarebbe inefficace contro il caro energia, l’euro si deprezzerà ulteriormente, aumentando l’inflazione importata e rendendo non più credibile l’obiettivo del 2 per cento.

Ma se segue la Fed, la recessione non è più un rischio, ma una certezza. Inoltre, il mercato aspetta di conoscere se, quando e come la Bce seguirà la Fed anche nell’avviare la riduzione dei titoli in portafoglio: una decisione che avrà un forte impatto sul debito pubblico italiano.

Effetto Italia

Per ora la Bce ha stabilizzato il nostro spread intorno a 230 punti, sterilizzando con vendite di titoli tedeschi gli acquisti di Btp. Ma è una strategia di breve periodo, incompatibile con l’avvio del processo di riduzione del bilancio della Bce.

La conseguenza è che in quel momento l’eventuale difesa del nostro spread per evitare crisi finanziarie sarà presumibilmente possibile solo con l’avvio del programma Tpi, che però imporrebbe condizionalità all’Italia.

Non si conosce a quale livello di spread la Bce potrebbe aprire l’ombrello del Tpi, ma sicuramente ben al di sopra dei 230 punti. E presumo non lo vorrà aprire prima delle elezioni del 25 settembre, per non interferire nella politica di un paese.

Però, così facendo, crea l’opportunità di un pasto gratis per chi sta costituendo posizioni allo scoperto sui nostri titoli al livello attuale dello spread, ben sapendo che dovrà allargarsi prima che il Tpi venga attivato.

La colpa non è della speculazione, ma della situazione in cui l’Europa e la Bce si sono venute a trovare.

L’8 settembre, la data della prossima riunione della Bce, è una data infausta per noi italiani. Speriamo che sia solo un’innocua coincidenza. 

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