A proposito delle dimissioni “illustri” dalla Commissione Calderoli, non ha torto chi si chiede non già perché Amato, Bassanini, Gallo e Paino abbiano lasciato, ma semmai perché ci siano entrati. Non sono uomini nati ieri alla politica e alle istituzioni, le frequentano da una vita. Calderoli, ostentando disappunto, sostiene che essi avessero sottoscritto condizioni, regole e obiettivo del della Commissione. Essi si sono dimessi stilando un pregnante documento nel quale motivano la loro decisione. Un testo ricco di riferimenti giuridico-normativi, che - non che ve ne fosse bisogno - attestano grande padronanza della materia. Spero non si offendano se osservo: anche troppa. Uno spreco di intelligenza e di dottrina. Ci voleva tanto a comprendere che il progetto Calderoli scontava vistosi e visibilissimi limiti di metodo e di merito?

Di (inadeguato) coinvolgimento del parlamento, di limitazione dell’oggetto, di evasività circa la decisiva questione delle risorse. Più concretamente: che garantire (e non semplicemente individuare) i livelli e dunque i diritti di cittadinanza fondamentali e universali in Italia è impresa titanica. Che la cosa ha che fare con lo storico divario tra nord e sud e che essa presuppone si facciano i conti con quel dettaglio che si chiama disponibilità finanziaria.

Anche i tecnici del diritto dovrebbero avere i piedi per terra. E magari una qualche attitudine al discernimento circa l’affidabilità dei propri interlocutori e committenti istituzionali. Calderoli, un nome una garanzia. Quello che si confessò autore della porcata.

In via più generale, sorprende che uomini dotati di esperienza politica e istituzionale come i suddetti dimissionari non abbiano inteso subito quattro cose. La prima: la rilevanza costituzionale della questione, il limite originario di immaginare di implementare l’autonomia differenziata affidandosi a una legge ordinaria. Una scorciatoia e una furbata. La seconda: il quadro delle riforme costituzionali messe in cantiere dal governo imperniato sul mix di presidenzialismo e autonomia differenziata.

Un mix audace e contraddittorio. Forse un’occhiata al nesso proclamato dagli stessi governanti “riformatori” era il caso di darlo. Un nesso chiaramente figlio di un mediocre baratto politico tra FdI e Lega. La terza: il proposito di procedere anche a colpi di maggioranza di governo, contro lo spirito del patto costituzionale e la stessa ratio dell’art. 138 che semmai contempla revisioni puntuali e largamente condivise.

La quarta eminentemente politica: anche i sassi sanno che l’autonomia differenziata è la carta propagandistica con la quale Salvini intende riguadagnare la vecchia ragione sociale e base elettorale della Lega nord dopo il fallimento del suo disegno di farne un partito nazionale (“per Salvini premier”). Al netto delle dispute tecnico-giuridiche, giova concentrarsi sulla sostanza, semplice e concreta: il problema delle disuguaglianze territoriali e delle risorse inadeguate ad assicurare i livelli essenziali delle prestazioni a tutti.

Per darsi una ragione di una tale svista da parte di personalità tutt’altro che ingenue, forse si può avanzare una spiegazione: la confusione, mi piace pensare in buona fede, tra riformismo (parola magica e abusata) e collaborazionismo. Non è bastato il patto del Nazareno? Mancano palesemente i presupposti soggettivi e oggettivi di una responsabile partecipazione a una impresa riformatrice di rilievo costituzionale. Cioè su un piano nel quale la fiducia reciproca è la precondizione. Vi sarebbe un’altra chiave di lettura: quella più severa suggerita da Gustavo Zagrebesky nel suo ultimo saggio ovvero il degrado del profilo etico-civile di costituzionalisti troppo solleciti verso il potere di turno cui prestare il proprio servizio, limitandosi ad approntare la cassetta degli attrezzi.
 

© Riproduzione riservata