Negli scorsi giorni è stato pubblicato il primo bilancio provvisorio sui percettori di reddito di cittadinanza per i quali è stata individuata e concordata una attività formativa da svolgere. Sono 47mila. Si può valutare questa cifra se si ricostruisce brevemente il contesto.

Con la legge di Bilancio relativa al 2023 il governo ha previsto che per i cosiddetti occupabili la durata massima del sussidio sarà di sette mesi e da agosto di quest’anno smetteranno di percepirlo. I non occupabili per i quali non vale questa misura sono i minori, le persone con disabilità e gli over 60. Non esiste al momento una stima definitiva su questi soggetti ma parliamo di circa 550-600mila persone.

Sempre la legge di Bilancio prevedeva che gli occupabili fossero inseriti in percorsi di formazione di sei mesi e che il reddito decadesse se questo percorso non veniva frequentato. Alla luce di questo quadro il numero iniziale, datato 17 febbraio, pone non pochi problemi.

Infatti risulterebbe che per meno del 10 per cento degli occupabili, a cinque mesi dalla decadenza del sussidio, sarebbe stata individuata una attività formativa, che neanche sarebbe stata (da quanto si intuisce) effettivamente avviata. Questo porta a concludere che nessuno degli occupabili verrà coinvolto in un percorso formativo semestrale. Conclusione in realtà abbastanza scontata considerati i tempi molto stretti e il fatto che il tutto si innestasse su un sistema di servizi per il lavoro che già in una situazione di normalità difficilmente riesce a gestire numeri minori.

Lavoro e povertà

Lo scenario è quindi preoccupante e sembra confermare come, di fatto, l’obiettivo fosse quello di ridurre fortemente il numero dei percettori di reddito in attesa dell’annunciata riforma che dovrebbe entrare in vigore nel 2024.

Il nodo resta sempre lo stesso ed è legato alla visione del rapporto tra lavoro e povertà nel nostro paese e sottende l’idea che la povertà, se in età da lavoro, sia causata da una scelta (o meglio, una colpa) del povero stesso che, nella migliore delle ipotesi, sarebbe uno sfaticato e, nella peggiore, un truffatore che lavora in nero.

Le evidenze su questo dicono altro, non negando certo la presenza di casi di frode che andrebbero ancor più combattuti, ma mostrando come una quota importante di occupabili viva in povertà a causa di una situazione personale complessa, fatta di anni di esclusione dal mercato del lavoro, concentrati al sud dove le opportunità di lavoro sono minori, con più di 45 anni.

Già con un sistema di servizi al lavoro funzionante, quindi, sarebbe stato altamente complesso pensare a esiti occupazionali positivi alla luce di percorsi formativi di sei mesi. Se poi questi percorsi, come si è visto, non sono ci sono proprio, la perdita di sussidio combinata con l’assenza di forme di reddito alternative è certa.

È probabile che il dato di realtà si imporrà e che le regioni, soprattutto quelle del Mezzogiorno, dovranno individuare altre forme di sostegno, magari utilizzando i fondi del piano Gol che possono coprire indennità durante percorsi formativi che verranno svolti dopo agosto, ma anche questa è una soluzione temporanea. E, soprattutto, una soluzione che continua a scontare una assenza di visione, perché se il governo varerà una riforma in linea con la concezione di occupabile che è emersa dalla legge di Bilancio il nodo resterà aperto anche nel 2024. Forse una soluzione, che tamponerebbe ma senza risolvere il vero nodo critico, potrebbe essere quella di garantire almeno i sei mesi di formazione prima di interrompere il sussidio.

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