Il Pride compie 56 anni e rischia di diventare uno specchio di Narciso, dove chi si avvicina pretende di vedere riflessa la propria visione del mondo sfumature. Il rischio è che da nord a sud i cortei suonino una sola nota: o quella radicalizzata, periferica e piena di rabbia o quella luccicante e musicale, ma vuota di contenuti. Invece siamo sempre state tutto: l’alto e il basso, i libri e le ballroom, la rabbia e la festa
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Il pride quest’anno compie 56 anni, e forse la crisi di mezza età inizia a farsi sentire. Era la notte del 28 giugno 1969 quando alcune donne trans e lesbiche butch, che frequentavano lo Stonewall Inn si ribellarono ai soprusi della polizia che, come spesso accadeva, faceva irruzione nei locali compiendo retate e abusi sulle persone che oggi definiamo LGBTQIA+.
Si ricorda ogni anno che «la prima volta fu rivolta» e lo si fa per criticare, più o meno platealmente, i Pride contemporanei, accusati di essere troppo istituzionali, addomesticati o anche schiavi di aziende e multinazionali, in quello che viene definito rainbow washing – ovvero la tendenza a sfruttare le cause LGBTQIA+ per operazioni di marketing.
Ma il vento politico ora soffia da destra e, con la presidenza Trump, molte aziende statunitensi stanno già facendo passi indietro. C’è chi ha ritirato l’appoggio finanziario ai Pride e alle cause della comunità, chi ha rinunciato persino alla banale “rainbowizzazione” di loghi e pagine social.
Ora, si dice, è il momento di capire se chi sostiene le nostre battaglie lo fa perché ci crede davvero, oppure cercava un modo per allargare il target dei propri consumatori. Ma c’è veramente qualcuno che pensa che in multinazionali dove il marketing e le strategie di comunicazione sono il Vangelo, esistano scelte fatte per altruismo?
Quello che dobbiamo chiederci è se, accanto ai carri dei pride, quelle aziende adottassero anche politiche di Diversity, Equity & Inclusion – le famose DEI che Trump si è da subito impegnato a cancellare. E anche se queste politiche sono utili alla comunità, oppure no.
Borghesi o capitalisti
È utile che un’azienda riconosca il congedo matrimoniale al dipendente che sposa all’estero il/la partner dello stesso sesso perché il suo paese glielo nega? È utile ottenere un congedo di paternità o maternità anche se non si è riconosciuti come genitori legali in una coppia omogenitoriale? È utile un posto di lavoro che non tollera alcuna forma di discriminazione basata su orientamento sessuale, affettivo e identità di genere? È utile un luogo che introduce bagni neutri? È utile poter usare il proprio nome di elezione sul posto di lavoro prima che questo sia modificato sui documenti d’identità? È utile ricevere un rimborso dalle assicurazioni sanitarie aziendali per i percorsi di affermazione di genere, propri o dei propri figli e figlie? È utile che alcune aziende finanzino corsi di formazione per persone trans, spesso escluse dal mondo del lavoro, e promuovano percorsi di assunzione per le persone più marginalizzate?
So già che qualcuno inorridirà davanti a questo elenco di possibilità, bollandole come troppo borghesi (matrimonio e figli*) o troppo capitaliste (assicurazioni sanitarie). Ma qui si parla della vita quotidiana di milioni di persone che ogni giorno passano otto ore dietro una scrivania o uno sportello, e hanno bisogno di vedersi riconosciute nella loro interezza: come persone che lavorano e come cittadin* che esercitano i propri diritti civili. È ovvio che siano gli Stati a dover tutelare e riconoscere i diritti delle persone, ma quando ciò non avviene, ogni goccia conta.
L’impatto della polarizzazione politica e l’avanzata delle destre reazionarie nel mondo ha il suo riflesso anche sui Pride e dopo aver combattuto per decenni, soprattutto a sinistra, per eliminare la contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali, in alcuni movimenti stiamo ripiombando nell’idea che, di fronte alle grandi questioni come il lavoro, il clima, la cittadinanza o i conflitti, riforme come quelle del diritto di famiglia siano e saranno sempre secondarie.
Mentre in Ungheria Orbán mette il Pride fuorilegge, nei paesi dove c’è ancora la libertà di manifestare – e con il DL Sicurezza l’Italia è a rischio – la battaglia si è spostata tra Pride cosiddetti “dal basso”, che rifiutano la presenza di ogni tipo di sponsor, madrine pop, o rappresentanti politici, e Pride più istituzionali che, fino a poco tempo fa, soprattutto a Roma, riuscivano a far convivere le parti più antagoniste: i centri sociali e i collettivi, insieme ad ambasciate, aziende e istituzioni.
Oggi questa convivenza viene messa in discussione, una ricchezza tutta nostra, che era anche la vera forza del movimento e della comunità LGBTQIA+. Chi ha frequentato Muccassassina alla fine degli anni ’90 ricorderà che, nella stessa serata, si mescolavano preti e sex worker, politici e studenti, drag e impiegate di banca. Di quanti posti frequentati da persone eterocis potremmo dire lo stesso?
La convivenza
La convivenza tra visioni differenti rischia di non essere più una risorsa ma un motivo di conflitto e divisione. Da una parte c’è chi spesso interpreta l’intersezionalità come un elenco di caselle da riempire, e dall’altra chi propone solo balletti e paillettes. Ma la forza del Pride è sempre stata quella di essere l’una e l’altra cosa. Uno dei pochi luoghi in cui un serissimo dibattitto tra sindacati nazionali e attivist* LGBTQIA+ può essere introdotto da una drag, non perché fa folklore, ma perché fa parte della nostra storia e della nostra cultura.
Il Pride rischia di diventare uno specchio di Narciso, dove chi si avvicina – spesso per la prima volta e da percorsi politici diversi – pretende di vedere riflessa esattamente la propria immagine, i propri interessi, la propria visione del mondo, senza compromessi né sfumature.
Il rischio è che i Pride che attraversano l’Italia da nord a sud arrivino a suonare una sola nota per volta: o quella radicalizzata, periferica e piena di rabbia oppure quella luccicante e musicale, ma vuota di contenuti. Così si va verso un movimento che confonde la radicalizzazione delle forme di lotta con la radicalità delle richieste, e il modo festoso di lottare della comunità LGBTQIA+ con la festicciola rainbow fine a sé stessa. Ma noi siamo sempre state tutto: l’alto e il basso, i libri e le ballroom, la rabbia e la festa, le partigiane come Tina Costa e le figlie delle famiglie arcobaleno che marciano fianco a fianco.
La prima volta fu rivolta, sì, ma la rivoluzione può scattare tanto in una notte del 1969, lanciando una bottiglia, quanto in una mattina del 2025, con una sentenza della Corte Costituzionale che riconosce entrambe le mamme come genitori legali dei propri figli e figlie.
La radicalità delle richieste dell’associazione di cui sono presidente, Famiglie Arcobaleno, non ha mai ceduto di un millimetro in questi 20 anni di battaglie per la piena equità familiare e i diritti dei bambini e delle bambine con genitori LGBTQIA+. E lo abbiamo fatto anche attraversando ogni Pride con la forza di un carrarmato ma a bordo di un trenino fucsia pieno di palloncini, bambin* e nonn*.
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