Sono arrivato come volontario nel campo profughi di Katsikas, nel nord della Grecia, nell'aprile del 2016. Ci abitavano 1.300 persone, che erano sbarcate sulle isole greche fra la sera del 18 e la mattina del 20 marzo. Questo faceva di loro quelli fortunati. Erano arrivati sulla terra ferma, e poi a Katsikas, qualche giorno dopo. Avevano ricevuto un sacco a pelo e un posto in una piccola tenda affollata. Ibrahim, che oggi vive e lavora a Valladolid, in Spagna, assieme alla moglie Siham e i due figli, mi ha detto qualche giorno fa «Le prime notti non abbiamo proprio dormito». «Per i sassi?», ho domandato io. Avere soltanto un sacco a pelo voleva dire stenderlo per terra e dormire su una distesa di pietre, separati soltanto dalla sottile base di plastica della tenda fornita dell'esercito greco. «No. Per il freddo», ha risposto Siham. Al tempo il loro primo figlio aveva un anno e mezzo. «Se Ibrahim teneva nostro figlio al petto, non riuscivo a chiudergli il sacco a pelo». Siham tantomeno: era fortunata a chiudere il suo, di sacco a pelo. Era incinta del secondo figlio, che sarebbe nato qualche mese dopo. Fu portata direttamente dal campo in ospedale. Appena nato il secondo figlio, che oggi ha quasi 5 anni e parla più spagnolo che arabo, sarebbe dovuta tornare a vivere in una tenda nel campo con il neonato, non fosse stato per la generosità di Kostas, un greco che offrì loro il piccolo appartamento che era stato della sua, di mamma; e del gruppo di volontarî che avevano offerto un po' di lavoro manuale e qualche soldo delle donazioni raccolte in Italia e Spagna, per pagare qualche bolletta arretrata.

L'accordo sui migranti

Perché, allora, “fortunati”? Perché quei 1.300 esseri umani (con l'eccezione delle persone che venivano da un paese in emergenza umanitaria da troppo tempo, come i poveri afgani) hanno avuto il diritto di essere ricollocati in altri paesi europei, dopo aver aspettato in un campo profughi greco per un anno o due. Sono stati gli ultimi ad arrivare sulle isole greche prima del 20 marzo 2016, la data di entrata in vigore dell'accordo fra l'Europa e la Turchia. Dopo quella data, chiunque arrivi in Grecia deve rimanerci, non c'è possibilità legale di essere trasferiti altrove. Chi è riuscito ad arrivare (o a inviare un coniuge o un figlio minorenne) prima di quella data, è dentro; chi arriva dopo, è fuori. E questo indipendentemente dal fatto che la guerra civile, in Siria, sia continuata; che gli arrivi di persone siano continuati a decine di migliaia; che negli anni successivi, dalle 36mila persone arrivate nel 2017, alle 50mila del 2018, alle 75mila del 2019 (secondo i dati Unhcr), gli arrivi siano ripresi ad aumentare; che dopo ogni fatto di cronaca (come l'invasione turca di Afrin nel 2018) nuove persone si mettano in marcia da quelle aree. Per questo, per gli standard europei di accoglienza dei rifugiati, vivere un anno e mezzo in un campo profughi nelle condizioni sopra descritte e poi essere ricollocati in altri paesi del continente europeo è da considerarsi un privilegio.

Potrebbe stupire il fatto che tutto questo non succede in un paese lontano e sconosciuto, bensì in Europa, nel paese che all’Europa ha dato il nome, che ha fatto nascere il concetto di democrazia. Perché la Grecia? La ragione è molto chiara, e semplicemente geografica. La Grecia è isolata: è l'unico paese dell'area Schengen, assieme a Malta, a non avere un confine di terra con alcun altro paese dell'area. Per arrivare dalla Grecia a un altro paese Schengen bisogna passare attraverso almeno due paesi senza libera circolazione delle persone, la strada più breve ne interseca addirittura quattro. Questo ha fatto sì che la Grecia si sia trasformata nel parcheggio per esseri umani alle porte d'Europa, ma lontano abbastanza perché l'Europa sia difficile da raggiungere.

La Turchia, ed Erdogan in particolare, non si è dimostrata un buttafuori affidabile, usando piuttosto il proprio ruolo di usciere come strumento politico di minaccia, e quindi la Grecia è diventata l'opzione di riserva. La Grecia non ha certo scelto questo ruolo, dato che per il Regolamento di Dublino III il primo paese di arrivo è quello che deve valutare (ed eventualmente riconoscere) il diritto d'asilo. Ma, come nel caso del tentativo con la Turchia, attraverso questo ruolo la Grecia ha ricevuto un'enormità di investimenti dall'Unione europea. Fra il 2016 e il 2019, la Direzione Generale per l'aiuto umanitario dell'UE (Dg-echo) ha investito 643 milioni di euro in Grecia, un compito oggi preso in carico dalla Direzione Generale per migrazione e affari interni (Dg-home), senza contare gli investimenti in altre agenzie europee, come Frontex, quella per il controllo delle frontiere.

Diritti negati

Proprio Frontex, rifondata nel 2016 in risposta alla crisi migratoria seguita alla guerra in Siria, è stata al centro di molte controversie riguardo al mancato rispetto dei diritti dei migranti. Inchieste di Der Spiegel e del New York Times hanno dimostrato la complicità di Frontex nei respingimenti attuati dalla Guardia costiera greca, illegali sia per il diritto internazionale che per il diritto europeo. Questa complicità è nota, data per scontata, da tempo a chiunque operi nelle isole dell'Egeo. Stesso discorso per l'inchiesta del Guardian di un paio di settimane fa, che riprende il report del Border violence monitoring network, sulle violenze delle polizie degli stati balcanici – quelli che dividono la Grecia dal resto dell'area Schengen – nei confronti dei profughi che provano ad arrivare nel resto d'Europa. Le botte, i furti di denaro e vestiti, i telefoni rotti, da parte della polizia locale per i profughi che passano per la Bosnia, la Serbia e specialmente la Croazia, sono cosa arcinota per chiunque operi sulla cosiddetta “rotta balcanica”, tanto da fare sì che il tentativo di sfuggire a queste violenze abbia acquisito un nome proprio: the game. Questi paesi non sono parte dell'Unione europea, quindi possono fare il lavoro sporco che una polizia europea non si potrebbe permettere.

E questa è la stessa ragione per la quale la visita di Draghi in Libia è stata accompagnata dalle polemiche. Sovvenzionando le milizie che – attraverso torture, stupri, riduzione in schiavitù – impediscono ai barconi di arrivare in Italia, il nostro paese adotta la stessa politica: cercare di fare di tutto perché queste persone non arrivino in Europa. Se riescono ad arrivare nel nostro continente potranno richiedere asilo, e sarà molto più difficile e costoso espellerli. Il messaggio sotteso alla politica europea è chiaro: il migrante che riesce ad arrivare sul suolo europeo è percepito come una sconfitta.

Ribaltare il paradigma

Per questo l’opera umanitaria delle persone come me è limitata, o inevitabilmente parziale: quasi cinque anni fa, assieme ad altri volontarî conosciuti in quel campo profughi, abbiamo creato una piccola organizzazione chiamata Second Tree, che continua a esistere e lavorare in quei campi profughi ogni giorno. Quello che cerchiamo di fare con Second Tree – che si chiama così per un proverbio africano che dice «Il miglior momento per piantare un albero era vent’anni fa; il secondo miglior momento è ora» – è ribaltare quel paradigma, mostrare i profughi in un’altra luce, come un bacino di talenti che all’Europa conviene accogliere. Non è facile, perché vuol dire rinunciare all’immaginario che romanticizza le vittime, che feticizza l’assistenza. Che vede la persona che aiuti come una collezione o una somma di necessità, come un “bisognoso”.

Ahmed, un altro dei ragazzi che arrivarono in quel campo a marzo 2016, e che ora ha una vita felice e produttiva in Finlandia, mi ha detto causticamente: «Se vengo trattato come un disabile, comincerò a credere di essere un disabile». Con lui stavo facendo una feedback session, un’intervista strutturata, a cinque anni di distanza, per analizzare ciò che aveva funzionato nel nostro operato di volontarî, e su cosa invece possiamo migliorare. Quando gli ho chiesto quali fossero state le cose positive, mi ha detto: «Continuate a trattare i profughi come persone normali, non sottolineate soltanto che hanno bisogno, mostrate loro che sono al vostro livello, e quando c’è da aiutare, non aiutateli perché sono persone a pezzi (broken) ma soltanto perché avete delle competenze che loro vogliono acquisire». Nel caso di Second Tree si tratta di mappare talenti, costruire conoscenze, lavorare sull’istruzione, colmare inevitabili lacune di bambini che non vanno a scuola da anni o non ci sono mai andati, costruire valore e ricostruire fiducia in sé stessi.

Second Tree non è certo l’unica espressione di questo diverso approccio all’aiuto umanitario. La vittimizzazione del cosiddetto “beneficiario” è un tema molto discusso, ma di strada da fare ce n’è ancora molta. Davide Coltri è un professionista del settore, e negli anni ha lavorato in molti paesi (Siria, Iraq, Sudan, Sierra Leone, Tanzania, per citarne alcuni) con diverse Ong internazionali, e parla spesso del problema. Oggi è education specialist per il norwegian refugee Council, una delle più importanti organizzazioni umanitarie al mondo, e commentando la sbrigativa frase di Ahmed sul non essere trattato come disabile mi ha detto: «Il concetto che Ahmed vuole esprimere è giusto, ma in realtà nel mondo della disabilità si sta diffondendo un altro tipo di narrazione meno vittimista, da cui noi operatori umanitari dovremmo imparare». Chiara Coltri, la sorella di Davide, è la capitana della nazionale Italiana di basket in carrozzina, dopo essere rimasta paralizzata alle gambe a quindici anni: «Chiara è vicepresidente della Fipic, ha il brevetto di volo, è appassionata di musica e di viaggi. Vederla solo come vittima, non è soltanto approssimativo, ma anche dannoso per lei e per la società. Penso che lo stesso ragionamento debba applicarsi a chi scappa da una guerra o da una persecuzione».

È su questo aspetto che si chiude il cerchio. Il settore di cui, inconsapevolmente, ho cominciato a fare parte cinque anni fa ha indubbiamente una parte di responsabilità nella percezione dei migranti come un mero accumulo di bisogni, e perciò come un’entità che non è conveniente accogliere. Ma se l’Unione europea è disposta a spendere un’enorme quantità di denaro – e sempre di più – per tenere le persone fuori dai propri confini, il problema non è soltanto economico, ma evidentemente politico. Il bilancio annuale di Frontex è passato da 6 milioni di euro del 2006 ai 460 milioni di euro del 2020, fino ai quasi 1,9 miliardi proposti per il 2027. Un aumento di 300 volte in vent’anni. Tanto più che la larghissima maggioranza dei migranti sono notevolmente più giovani dell’età media europea, facendone dei potenziali contributori netti alle economie europee, data la minore incidenza su due delle voci di spesa più alte del bilancio di qualunque stato europeo: la sanità e le pensioni. In altre parole investire sull’accoglienza non è soltanto giusto, ma anche conveniente.

In questo senso piccole realtà come la nostra e le tante altre che fanno ogni giorno un lavoro importantissimo ma poco visibile, possono certamente coltivare i frutti di un cambio di percezione, e perciò di approccio nei confronti dei migranti. Ma questi frutti devono essere portati al mercato (l’opinione pubblica) e venduti (raccontati) da una politica più coraggiosa. Ci raccontiamo spesso che l’immigrazione è inevitabile, il che è probabilmente vero sul lungo periodo. Ma per un obiettivo miope, come il fare entrare il minor numero possibile di gente, costruire parcheggi per tenere queste persone a sufficiente distanza dal resto d’Europa – l’ultimo ad aver assunto questo ruolo, proprio nelle passate settimane, sono le isole Canarie – è, in realtà, sostanzialmente efficace. Quello che dobbiamo chiederci è quanto siamo disposti a pagare, in termini di sofferenze e di denaro, per ottenere questo sciocco e crudele risultato.

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