Due fatti sono difficilmente contestabili. Il primo è che in Italia esiste ormai da decenni un problema di crescita. Tra il 2000 e il 2019 il tasso di crescita del prodotto interno lordo italiano è stato pari allo 0,4 per cento, meno di un quarto del tasso di crescita medio nelle economie del G7. Il secondo è che la ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di pochi. Salvatore Morelli ha ricordato su lavoce.info che tra il 1995 e il 2016 lo 0,1 per cento più ricco ha visto raddoppiare la sua ricchezza, mentre per il 50 per cento più povero la ricchezza è crollata dell’80 per cento. Nel corso dell’ultimo ventennio a questa dinamica si è accompagnata una riduzione dei proventi derivanti dalle imposte di successione, attribuibile a sostanziali revisioni del regime di tassazione che hanno ridotto la progressività dell’imposta, sia riducendo la quota di eredità soggette a tassazione che l’aliquota media. Nel quadro internazionale, l’Italia risulta così essere tra i paesi in cui la tassa di successione ha il peso minore all’interno del totale dei prelievi fiscali.

La proposta del Pd

In questo contesto è inserita la proposta avanzata dal Partito democratico di revisione in senso progressivo delle aliquote sull’imposta sulle successioni e donazioni, ispirata dai lavori dell’economista Tony Atkinson e a una proposta simile elaborata dal Forum disuguaglianze diversità. Sebbene sia difficile negare la necessità di intervenire per attenuare le disparità, la proposta ha incontrato molte resistenze, spesso motivate dall’elevata pressione fiscale che renderebbe fuori discussione parlare di nuove tasse. Tuttavia, anche ignorando la sterile polemica sulla scelta infelice del termine “restituzione”, che rivela una visione ostile al successo e lascia intendere che i patrimoni siano solo il risultato della sorte, quello che non convince non è la tassa di successione per sé, che ha elementi di equità, ma il modo in cui si intende investire i proventi dell’aumento dell’imposta, come evidenziato anche da Tito Boeri e Enrico Perotti. Gli effetti della pandemia rendono più urgente intervenire per contrastare l’aumento delle disuguaglianze e il gap di crescita. Un recente rapporto dell’Istituto Bruegel mostra come l’Italia sia l’unico paese in Europa in cui ci si aspetta una contrazione del prodotto interno lordo tra il 2019 e il 2023. Diventa perciò fondamentale per gli interventi di politica economica cercare il più possibile di bilanciare la lotta alle disuguaglianze con la necessità di stimolare la crescita. Da un lato, politiche per la crescita generebbero maggiori possibilità redistributive. Dall’altro, una distribuzione più equa delle risorse – intesa in senso lato, a partire dall’accesso all’istruzione – può contribuire a crescita e sviluppo.

Da questo punto di vista, la proposta del Partito democratico ha il merito di essere una misura che non colpisce i ceti medio-bassi e diretta a ridurre la disuguaglianza intergenerazionale. Ma la proposta prevede di destinare l’imposta al finanziamento di una “dote” di 10mila euro per il 50 per cento dei diciottenni più poveri. Un bonus – l’ennesimo – che dovrebbe permettere ai giovani di fare scelte in istruzione o lavoro che altrimenti rischierebbero di essere precluse da vincoli finanziari. Ma siamo sicuri che questo sia l’uso migliore che si possa fare di quelle risorse, in una prospettiva di crescita? Su queste pagine Emanuele Felice descrive la dote come «un bel modo per ricompensare» i giovani colpiti dal lockdown. Ma non basta ragionare in termini di compensazione, è necessario fare in modo di utilizzare le (poche) risorse disponibili nel modo più efficiente.

Alleggerire le tasse sul lavoro

In primo luogo, anche alla luce dell’alta pressione fiscale, si può immaginare di destinare i proventi dell’imposta di successione all’alleggerimento della tassazione sul lavoro. Più in generale, si potrebbe redistribuire il carico fiscale in modo che sia più equo e più favorevole alla crescita. L’obiezione a questo tipo di soluzioni è che sarebbe necessaria una riforma complessiva del sistema fiscale, impresa che richiederebbe ben altri sforzi. Se, come auspicabile, l’obiettivo resta confinato ad aiutare in modo diretto i giovani, rimangono comunque dubbi sul fatto che la dote sia la scelta ottimale. Destinarla al 50 per cento più povero e solo per alcuni anni (i giovani che hanno oggi tra i 13 e i 17 anni) genererebbe distorsioni tra i beneficiari, non presenti nella proposta originale di Atkinson. Inoltre, se da un lato la dote rappresenta un segno di fiducia da parte della classe politica nei giovani e nella loro capacità di fare scelte responsabili, è lecito domandarsi se l’ammontare della dote sia effettivamente sufficiente a superare gli ostacoli (che non sono solo finanziari) e rendere possibili certe scelte. Perché allora non pensare di investire nella scuola (inclusa l’edilizia scolastica), nell’università e in politiche sociali e per la famiglia? Anche in quel caso si investirebbe sui giovani e sul loro futuro, ma in modo meno distorsivo, più strutturale e con obiettivi di lungo periodo volti a rafforzare un sistema pubblico che permetta una distribuzione meno iniqua delle opportunità e dell’accesso alle risorse di base. Resta allora il dubbio che la scelta della dote sia motivata dalla sua “visibilità” e non da una visione di un modello di società più equo a cui ambire. In questo modo si facilita la levata di scudi da più parti della società e della politica. Si sarebbe trattato allora di un’occasione persa per promuovere il dibattito su una maggiore progressività della tassazione, che dovrebbe essere al centro di una sinistra riformista e orientata al futuro.

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