Alcuni nodi storici in materia di radio, tv, internet sono giunti al pettine tutti insieme.

Dal Lussemburgo la Corte di giustizia dell’Unione europea ha fulminato la norma italica che finora ha tenuto le società di telecomunicazione fuori dal business dei ricavi pubblicitari. Quel marchingegno era posto a protezione degli interessi Mediaset nel campo della tv tradizionale e da qualche tempo era anche l’ostacolo più grande incontrato da Vivendi, gruppo francese ricco di quattrini, bramoso di prendere il controllo dell’azienda con tanti saluti alla nota famiglia del Biscione. Al di là dell’eventuale avvicendamento proprietario, conta il fatto che questo basta a sconvolgere il giardinetto del duopolio (con Mediaset a prosciugare i budget pubblicitari e la Rai a proteggerle le spalle dalle velleità di ogni eventuale concorrente). Con l’ingresso in campo di società dalle tasche ben profonde, capaci di comprarsi divi, partite e ogni ben di dio, le mezze tacche casalinghe hanno poco da sperare e la stessa politica sarà assai meno motivata a trovare soldi e norme di favore adatte solo a perpetuare tanto strazio.

Nel contempo la qualità della tv commerciale tenderà in sé stessa a peggiorare, e non soltanto in Italia, dove di certo non è eccelsa, perché la Direttiva 2018/1808 è stata finalmente recepita. Così ora il governo è tenuto a modificare in peggio e anche in fretta il nostro ordinamento nella materia «delle disposizioni e delle definizioni, comprese quelle relative ai servizi di media audiovisivi, radiofonici e ai servizi di piattaforma per la condivisione di video, alla luce dell’evoluzione tecnologica e di mercato». Il che, tradotto in prosa, significa che ogni canale commerciale generalista (a proposito, Mediaset se n’è appena fatto riconosce uno tutto nuovo, al numero 20 del Digitale terrestre) praticherà un terzo in più dell’attuale affollamento pubblicitario, passando dal plafond delle cinque ore giornaliere a quasi sette. Aggiungi per l’Italia la bella e tutta nostra invenzione delle “Telepromozioni”, e si delinea un panorama della tv commerciale tradizionale molto simile alle più precarie tv locali dei tempi bui ingorgate dalla pubblicità perché costrette a rincorrere fino allo spasimo ogni singola liretta. Con questa valanga le tv tradizionali sperano evidentemente di vendere spot a prezzi stracciatissimi per frenare la falla che gli risucchia ricavi a favore della promozione a mezzo social.

Se fossimo un paese non troppo distante dal normale, ci aspetteremmo una levata di scudi dagli editori stampa per il rischio di essere loro quelli che alla fine pagano le spese della festa, perdendo ricavi sia sulle copie stampate sia sulla pubblicità raccolta nei loro stessi siti on line. Aggiungi che del tutto fuori tema, non richiesta dalla Ue, c’è poi la tentazione, visto che si tratta di porre mano agli affollamenti pubblicitari, di segare i ricavi della Rai diradando gli spot, guarda caso, su Rai 1 che ne fornisce la quota principale. Qui si vedrà se prevarrà l’istinto truffaldino di tenere tutto fermo aggiustando le porzioni, o se diventerà invece pressante la necessità di una riforma del Servizio pubblico che diminuisca magari la sua presenza nel mercato degli spot, ma nel contempo ponga termine allo scippo ad altri fini di un sesto del canone che ogni famiglia italiana è convintissima di versare nelle casse della Rai. Ma, stando in argomento, non possiamo resistere alla tentazione di citare quello che s’erano escogitati due eminenti figure del parlamento, tali Michel Anzaldi e Giorgio Mulè, quando hanno proposto, pochi mesi orsono, una leggina per mantenere alti i ricavi pubblicitari della Rai, salvo sottrarle quei milioni dal bilancio per destinarli ad altri operatori amici loro.

Il siluro agli incentivi produttivi

Una procedura d’infrazione pende intanto presso la Ue contro il Decreto Franceschini che nel 2017 ha ampliato la torta degli incentivi tributari alla produzione, ma privilegiando in qualche misura i produttori residenti nel paese a scapito di quelli oltre confine. Qui la faccenda richiederà fermezza e muso duro a difesa delle norme sotto attacco, perché una forte produzione nazionale, spalleggiata dalla Rai e dallo stato quanto serve affinché abbia muscoli adatti a navigare nel mercato globale, è essenziale per un insieme prezioso di posti di lavoro, oltre che per dialogare con i fermenti di idee e costumi del paese. Ma non potrà bastare appigliarsi ai diritti della cultura come se fosse una specie da salvare. Su questo piano gli argomenti sono ormai consunti dall’abuso perché per quarant’anni sono stati spesi al servizi di successivi aggiustamenti fra monopoli senza legge, leggi senza forza, imprese decotte e corporazioni travolte dal panico epocale per la fine dei clienti e dei mestieri. È il tempo delle visioni strategiche, del ruolo della mano pubblica, delle politiche d’impresa. Oggi e subito, senza abbandonarsi all’epica delle sorti progressive indotte da big data, intelligenza artificiale ed altre meraviglie che non risolvono da sole i ritardi cumulati in tanti anni.

A completare il panorama delle insidie e delle sfide, è arrivato anche il momento del rinnovo del Cda Rai che ha esaurito il suo mandato, mentre la Rai sembra come non mai figlia di nessuno e rischia di trovarsi buttata in una cantone se la politica non troverà la forza di pensarle un orizzonte. Qualcuno fra i leader eminenti ha sentito puzza di bruciato e ha dichiarato che stavolta non ci si fermerà alla spartizione “oggi e subito”, ma si alzerà lo sguardo a leggi tutte nuove capaci di risolver la questione. Fedez sembra aver scatenato una gara di virtù riformatrici: i più scettici comprano il pop corn; gli animi più romantici s’appassionano. A fine maggio dovrebbe risultare chiaro se siamo a una svolta epica o al rinnovo della farsa lottizzata.

Tutte le questioni finora nominate si scaricano sulla sfida di pensare un Tusmar (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici) tutto nuovo rispetto a quello a cui Maurizio Gasparri, ministro del governo Berlusconi, associò nel 2005 il proprio nome.

Quella legge fotografava l’aggiustamento fra gli interessi allora dominanti (Publitalia, le colonie lottizzate in Rai) ed era lontano mille miglia da una visione d’insieme che puntasse alla crescita di prodotto, presenza sui mercati, qualità del servizio informativo.

Oggi, in un panorama sconvolto da social e piattaforme, gran parte di quel Testo è destinato alla discarica. Sarà da vedere se il governo Draghi vorrà impelagarsi a scrivere nuove norme o se cercherà di mandare la palla fuori campo affinché quel nido di vespe sia un altro ad affrontarlo.

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