Che sia la punta dell’iceberg o un fenomeno circoscritto, il Qatargate ha dimostrato che regole e controlli all’Europarlamento funzionano poco e male. Perché se per anni l’apparato di trasparenza messo in campo dalle istituzioni europee è stato guardato da noi italiani, privi di regole sul lobbying, come un esempio da seguire, era evidente come il tallone d’achille del sistema fosse proprio il parlamento.

Sarebbe troppo facile scaricare le colpe sulla giungla di lobby che affollano Bruxelles e assediano le istituzioni comunitarie.

La rilevanza delle materie di competenza della Ue e il loro impatto su centinaia di milioni di europei fa sì che gruppi industriali, associazioni di categoria, società di lobbying, sindacati, organizzazioni non profit, think tank, studi legali e perfino confessioni religiose abbiano uffici e personale dedicato alle relazioni istituzionali nella capitale d’Europa.

Non può destare scandalo il fatto che oltre 12.000 soggetti siano iscritti al registro della trasparenza europea: quel numero così elevato è il frutto, da una parte, di un’idea estensiva dell’attività di lobbying (ricordo che in Italia, i sindacati e Confindustria si sono sempre opposti a essere annoverati tra gli attori che influenzano come gli altri le politiche pubbliche); dall’altra, di una vitalità democratica fatta di interessi molteplici.

Esploso il Qatargate, Roberta Metsola si è detta a favore di una forte stretta in materia di trasparenza all’Europarlamento.

Ben venga, finalmente, anche se i limiti regolatori e le resistenze politiche a uniformare il quadro normativo su rappresentanza di interessi e integrità da parte dell’istituzione da lei presieduta erano noti da tempo. Prima di tutto, l’eccessiva contiguità tra politica e affari, che è il vero humus di questo scandalo.

Gli eurodeputati (come anche i nostri parlamentari) sono sottoposti a un codice di condotta blando, che non vieta di svolgere un’attività professionale durante il mandato parlamentare e non specifica quali attività parallele vadano escluse.

Questo a fronte di indicazioni tutt’altro che stringenti riguardo ai potenziali conflitti di interessi. Che potrebbero manifestarsi anche cessato l’incarico parlamentare.

Modello Panzeri

Al di là del profilo corruttivo, quello di Antonio Panzeri è un evidente caso di porte girevoli: un ex rappresentante, con una conoscenza diretta di dossier in discussione nelle commissioni parlamentari e con una fitta rete di relazioni nell’istituzione in cui ha prestato il proprio mandato, non avrebbe dovuto svolgere un’attività di lobbying.

Lo ha potuto fare perché Strasburgo è sempre stata contraria ad applicare regole rigide sui rapporti tra portatori di interessi e parlamentari: gli eurodeputati non sono obbligati a incontrare solo lobbisti iscritti al registro della trasparenza né a rendere noti tali meeting.

Devono farlo, da poco, solo presidenti di commissione, relatori e relatori ombra dei dossier politici. Fight Impunity, l’organizzazione di Panzeri, non risulta iscritta al registro della trasparenza.

L’ex deputato ha avuto libero accesso al parlamento (e alla sua rete di contatti) perché non è previsto un periodo di raffreddamento di 1-2 anni tra l’incarico pubblico e il successivo incarico privato (anche se in una Ong), laddove questo verta sugli stessi temi affrontati nel corso del mandato parlamentare.

E poi, il Qatargate ha dimostrato l’inefficacia o  l’assenza di controlli: da anni proponiamo la creazione di un’autorità etica indipendente comune a tutte le istituzioni capace di monitorare comportamenti a rischio e dotata di poteri istruttori.

La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha fatto sua la proposta, ma a un anno e mezzo dalla chiusura del ciclo politico 2019-2024 la commissaria Jourová non ha ancora tradotto questo mandato in una proposta legislativa.

Roma come Bruxelles

La premier Giorgia Meloni, impegnata a Bruxelles per i lavori del Consiglio europeo, ha parlato di “scenario preoccupante” che necessita una “reazione ferma e decisa”.

Il coinvolgimento di politici e assistenti parlamentari italiani dovrebbe destare un’ulteriore preoccupazione, a maggior ragione perché l’Italia non può certo vantare un apparato regolatorio efficace volto a contrastare influenze indebite sui processi decisionali.

Se ne è accorto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha riconosciuto la necessità di una legge sul lobbying.

Provvedimento naufragato nella precedente legislatura a un miglio dall’approvazione al Senato. Testo tutt’altro che perfetto, che avrebbe però quantomeno riconosciuto cosa è lecito fare nell’attività di rappresentanza di interessi.

Molto più manchevole, invece, sul fronte dei “doveri” dei parlamentari: nessun obbligo di rendere noti gli incontri e nessun divieto di porte girevoli. Evidentemente, un vizio diffuso a Roma come a Bruxelles.

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