Domenico Lucano, detto Mimmo, deve essere condannato a sette anni e undici mesi di galera. E’ questa la richiesta avanzata dalla Procura della repubblica di Locri. L’ex sindaco di Riace, borgo della Calabria negli anni assurto a modello mondiale di accoglienza, solidarietà e integrazione tra popoli, ha commesso colpe gravissime: truffa, peculato, falsità ideologica, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, concussione. Per questo deve pagare. E duramente, come uno dei tanti politici avidi di mazzette e potere che affollano il deprimente quadro politico della Calabria.

Lucano ha rubato, ha usato i soldi destinati ai dannati del Mediterraneo per arricchirsi? La risposta è no. Inchiesta e processo non sono riusciti a dimostrare che l’uomo dell’”utopia della normalità” si sia appropriato di un solo centesimo.

Non vi è traccia, neppure labile, dei 2 milioni di euro che Lucano avrebbe intascato e dei quali disporrebbe, sbandierati dal procuratore di Locri Luigi D’Alessio in una infelice intervista. Con un processo che si avvia a conclusione (a metà settembre è prevista la sentenza), e dopo udienze che hanno messo a confronto testimoni, analizzato documenti e intercettazioni, con gli avvocati della difesa che hanno prodotto relazioni e perizie, i fatti concreti emersi – incontestabili, granitici, tali da garantire una sentenza al di là di ogni ragionevole dubbio – sono pochi. Il quadro accusatorio, come già rilevato da pronunciamenti del Gip, della Cassazione e del Tribunale de Riesame, appare inconsistente e vago.

E allora il sospetto che l’inchiesta che ha portato all’arresto e all’esilio di Lucano, e che ha assestato un duro colpo al modello Riace, sia stata una inchiesta squisitamente “politica”, prende corpo e vigore.  Il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, giura di no. «Nel corso di questi anni – ha detto intervenendo in Aula – si sono succeduti ben quattro governi. Personalmente ho anche incontrato i massimi rappresentanti di questi governi, da Renzi a Salvini, ma mai è venuta alcuna pressione sulle indagini».

Accantoniamo per un attimo il nostro interesse a sapere i motivi e il contenuto degli incontri, forse ce li spiegheranno gli stessi Renzi e Salvini, e concentriamoci sulla requisitoria del pm Michele Permunian. Alcuni passaggi rendono con chiarezza la cornice essenzialmente politica nella quale sono state incastonate le accuse. «Lucano era il dominus, voleva sempre più migranti a Riace per avere più soldi e fare più assunzioni». Quei fondi pubblici erano «il welfare dei riacesi».

Aver rivitalizzato un paese spopolato dall’emigrazione, spalancato le porte di case abbandonate da decenni e fatto rivivere il borgo antico, aver riaperto scuola e asili, aver riportato la vita nei vicoli, aver consentito a piccole economie di reggere, tutto ciò è umiliato, sfregiato, infangato. Perché la Procura deve corroborare la sua tesi. Trovare il “movente” del delitto.

«L’agire anche illecito di Lucano è determinato da interessi di natura politica». Il suo progetto ha bisogno dei migranti. Anche quando le assurde leggi che regolano l’accoglienza ne dispongono l’allontanamento, non lo può fare, «per una immagine pubblica che si è creato, e soprattutto perché deve tenere in piedi un sistema che fa lavorare tutti i riacesi, i quali stanno zitti».

Forse il pm non se ne rende conto, ma quanta “politica” c’è in queste sue parole, e come sono vicine, fino ad abbracciarle, alle parole che avvelenano la vita politica italiana. L’accoglienza come business, i riacesi che vedono, osservano, sanno e…«stanno zitti». Omertosi. I soliti calabresi, brutti, sporchi, cattivi e alla ricerca di un lavoro. 

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