Merita riflettere sulle disavventure – pur dalle fattispecie diverse, specie sotto il profilo giudiziario – nelle quali sono incappati i sedicenti “governatori” di Liguria e Puglia. Entrambe ci istruiscono e ci mettono in guardia sulle due riforme istituzionali in agenda: premierato e autonomia differenziata. Perché la figura dei governatori ricapitola in sé sia un massimo di concentrazione/personalizzazione del potere nel vertice dell’esecutivo, sia la pretesa/ambizione di un’autonomia spinta al limite dell’autoreferenzialità e del separatismo feudale.

Si spera che quantomeno la lezione che se ne ricava giovi ad archiviare la pressante spinta, da destra e da sinistra, a cancellare il limite dei due mandati. Ricordo perfettamente che quando si introdusse l’elezione diretta dei presidenti di regione (questo il loro nome proprio) un po’ tutti si convenne sulla circostanza che si dovesse, contestualmente, stabilire il rigoroso limite dei due mandati. Nella consapevolezza che si stava assegnando uno straordinario potere alla istituzione-persona del presidente. Il limite dei mandati fu concepito come uno stretto corollario della sua elezione diretta. Il tempo ha semmai rafforzato le ragioni di tale preoccupazione. Con la pretesa/ambizione dei “governatori” a comportarsi quali autocrati e persino satrapi dei propri territori. Al sud come al nord. Ove si sono incistati estesi e opachi sistemi di potere personale e persino familiare.

E forse dovremmo ricordare la fine ingloriosa di Formigoni in Lombardia. L’art. 37 dello statuto della Liguria assegna al suo presidente un cumulo di poteri tale da farne una sorta di monarca. Davvero vogliamo mettere le premesse per un antagonismo tra il monarca al centro (il premier versione meloniana) e venti monarchi regionali? Domando: vogliamo autorizzare le regioni ad acquisire potere esclusivo su 23 ulteriori materie – tante ne contempla il dl Calderoli – che, con questo assetto, inesorabilmente, in larga misura finirebbero nelle mani della persona del presidente? Come non bastasse, in un tempo già abbondantemente segnato dallo svilimento delle assemblee elettive e dalla evanescente mediazione di partiti degni di questo nome. Appunto ai partiti spetterebbe infatti di selezionare e di vigilare sulla qualità di amministratori ed eletti.

Onde appunto prevenire e scoraggiare fenomeni di trasformismo del personale politico, nonché un rapporto malato tra i “governatori” e famigli, clienti, comitati d’affari sul territorio. I casi recenti ci impegnano a una riflessione anche su altri due fronti: stampa e magistratura. Se fosse stata già varata la “legge bavaglio” che vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, l’opinione pubblica non sarebbe stata resa edotta di circostanze di manifesto interesse pubblico. Di più: a monte, con la limitazione delle intercettazioni, forse neppure si sarebbe avviata l’azione giudiziaria in larga parte originata da esse.

​​​​​​Così pure gli abituali, zelanti detrattori della magistratura dovrebbero riconoscere che i comportamenti dei quali siamo venuti a conoscenza si mostrano decisamente censurabili sul piano politico e del costume (si veda la saga bipartisan degli yacht eletti a “sede istituzionale”), al di là della loro vera o presunta rilevanza penale.

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