I tempi di inflazione, come questi che stiamo attraversando, sono tempi di grandi sconvolgimenti durante i quali le fondamenta economiche delle nostre società vengono rimesse in discussione. Ancor più che durante le recessioni, quando a soffrire sono soprattutto coloro che perdono il posto di lavoro.

L’inflazione colpisce tutti, in modo diseguale, per reddito, settore di attività, per funzione (premia i debitori e sanziona ingiustamente i creditori). L’ordine sociale vacilla.

C’è sempre chi, in situazioni di crisi come questa, vede anche opportunità oltre a rischi. L’influente economista Adam Tooze, in un saggio su Foreign Policy, ha condensato le domande che si fa un pezzo di mondo progressista convinto che l’inflazione sia di sinistra mentre l’austerità è di destra. Cioè che le stagioni di prezzi in crescita siano un’occasione per rimettere in discussione rapporti di forza e relazioni consolidate che in tempi normali paiono inamovibili.

Gli anni Settanta, ricorda Tooze, sono stati anni di crisi ma anche di grandi miglioramenti sociali: sindacati e partiti socialdemocratici forti hanno ottenuto importanti aumenti salariali ed estensioni del welfare (in Italia il servizio sanitario nazionale nasce poco dopo le crisi energetiche, nel 1978).

Anche l’inflazione crea alcuni vincitori, oltre a tanti sconfitti: chi aveva un mutuo da pagare a fronte di una casa se l’è passata bene, l’inflazione ha eroso il valore reale delle somme da rimborsare mentre il prezzo nominale della casa cresceva in linea con il mercato, il debito pubblico creato in quegli anni ha gene rato tanti sprechi ma il danno è stato attutito dall’inflazione (o almeno così è sembrato per un po’).

Le politiche monetarie restrittive, di Paul Volcker negli Stati Uniti ma poi imitate da tutti gli altri, hanno riportato l’ordine nei prezzi e nel mercato dei cambi, ma hanno anche soffocato i fermenti sociali e le spinte al cambiamento.

La sintesi di Adam Tooze è questa: alla fine degli anni Settanta, «i banchieri centrali hanno fatto quello che volevano alcuni gruppi di riferimento, cioè i risparmiatori, gli imprenditori e gli  investitori – nessuno di loro ama l’inflazione – ma hanno fatto anche quello che voleva una certa opinione pubblica conservatrice che reclamava il ritorno alla stabilità».

Non sono gli anni Settanta

La crisi di inflazione dei nuovi anni Venti, però, è sovrapponibile soltanto in parte con quella degli anni Settanta, al di là delle analogie più superficiali che riguardano la presenza di una crisi energetica come innesco e uno sfondo di forti tensioni geopolitiche.

A novembre 2022, mentre l’inflazione marciava al tasso del 10,1 per cento, nell’eurozona i salari continuavano a crescere allo stesso ritmo pre-pandemia, cioè come in un mondo senza inflazione (un tasso medio del 2,1 per cento all’anno).

Questa dinamica ha rassicurato la Bce che l’inflazione non avrebbe contagiato i salari, e che le aspettative rimanevano ben ancorate, cioè i lavoratori non reclamavano aumenti di stipendio strutturali a fronte di una riduzione del potere d’acquisto temporanea. Una spiegazione molto confortevole per i banchieri centrali, ma un po’ fragile.

I redditi dei lavoratori europei sono stati così stravolti dai due anni di pandemia e crisi energetica che forse per molti è difficile rendersi conto di qual è davvero il loro reddito disponibile: prima i lockdown e le politiche anti-Covid hanno fatto crollare il numero di ore lavorate, poi i sussidi e le misure emergenziali governative hanno reintegrato gran parte delle somme perse (e in alcuni casi anche di più), infine la crisi energetica ha fatto salire alcuni costi, ma di nuovo i governi hanno dato aiuti sulle bollette.

Se è così, la spinta al rialzo dei salari potrebbe essere stata soltanto posticipata, difficile che le persone rimangano indifferenti all’erosione del loro potere d’acquisto per percentuali significative, anche intorno al 10 per cento.

L’ortodossia monetaria costruita dopo gli anni Settanta prevede che il momento in cui diventa più urgente e necessario intervenire è proprio quando le richieste di aumento salariale riguardano vaste categorie organizzate di lavoratori, perché quello è l’innesco della spirale tra prezzi e salari che può far perdere definitivamente il controllo.

Questo contesto offre alcune opportunità per la sinistra, più che alla destra. Fino al mondo pre-Covid, l’ortodossia monetaria e di politica economica offriva molte più sponde alle forze moderate, centriste o perfino di destra: globalizzazione e concorrenza internazionale hanno generato una crescita che, prima del Covid e della guerra in Ucraina, pochi erano disposti davvero a mettere in discussione per perseguire maggiore sicurezza o equità.

I mercati finanziari hanno osservato senza reagire l’enorme immissione di moneta fatta dalle banche centrali dopo la grande crisi finanziaria senza avanzare particolari timori di inflazione, perché quel denaro è andato a gonfi are i valori degli attivi di Borsa molto più che a finanziare l’economia reale: non c’è rischio di inflazione se i soldi vanno ai più ricchi, che non aumenteranno molto i propri consumi ma soltanto i risparmi e dunque gli investimenti.

I partiti progressisti faticavano a imporre i temi dell’equità sociale e della redistribuzione perché le politiche conseguenti sembravano mettere a rischio o la crescita, oppure la credibilità finanziaria in caso di politiche finanziate a debito.

Dopo la doppia crisi

Covid, guerra e crisi energetica hanno cambiato quasi tutto. Governi di ogni colore hanno adottato politiche fiscali espansive per decine o centinaia (perfino migliaia, negli Stati Uniti) di miliardi a sostegno dell’economia.

La pandemia ha dimostrato l’importanza di politiche pubbliche condivise, a livello nazionale e globale, e l’insufficienza del mercato a produrre risposte adeguate senza il contributo e la regia pubblica.

La guerra e la crisi energetica hanno rimesso in discussione la globalizzazione fondata sull’efficienza per come l’abbiamo conosciuta.

Mentre la transizione ecologica è diventata una questione di sovranità nazionale e indipendenza: soltanto i paesi o le aree geografiche che costruiranno un sistema di approvvigionamento autonomo o almeno affidabile potranno competere in un mondo che non sarà più fondato sulle fonti fossile vendute da regimi non democratici e instabili.

L’inflazione, infine, ha creato una potenziale domanda per politiche redistributive perché ha colpito in modo diseguale e ha scosso un mercato del lavoro che in Europa, e soprattutto in Italia, era abbastanza stagnante, visto che la bassa crescita della produttività determinava anche una lenta crescita dei salari.

Adesso tutto è diverso, dopo un paio d’anni di inflazione alta, i lavoratori finiranno per riorientare le proprie preferenze politiche verso chi promette di ricostituire il potere d’acquisto perduto, invece che a chi offre difese da nemici esterni immaginari come i migranti o interni come le minoranze che reclamano diritti.

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