Dopo i turbolenti anni Settanta, con tassi di inflazione a due cifre, iniziò un periodo di politiche monetarie aggressive (la ricetta dell’allora presidente della Fed americana Paul Volcker) che portarono alla rapida disinflazione al prezzo di una sia pur temporanea recessione violenta.

Dall’inizio degli anni Ottanta, l’economia mondiale ha conosciuto un periodo di crescita stabile (sia pure moderata), di bassa inflazione e di limitata incertezza macroeconomica. Le ragioni di questo periodo di “grande moderazione” restano dibattute.

Alcuni ci vedono una gestione competente del ciclo da parte delle banche centrali abbinata mercati resi più efficienti da riforme e deregolamentazione. Altri, come Branko Milanovic e Thomas Piketty, evidenziano il lungo periodo di moderazione salariale che ha certo mantenuto l’inflazione a livelli ridotti, ma è anche uno dei fattori che spiegano la disuguaglianza crescente e quindi indirettamente le bolle speculative e l’accumulazione di debito eccessivo, entrambi alla radice della crisi finanziaria globale.

Una stagnazione secolare

Con la crisi del 2007 la grande moderazione ha ceduto il passo ad una situazione di prezzi stagnanti molto più facile da interpretare. La riduzione della ricchezza finanziaria, il processo di disindebitamento di famiglie e imprese (cui in Europa si sono aggiunte le politiche di austerità) hanno fatto crollare la domanda aggregata e spinto l’economia nella trappola della liquidità. Da noi, per un decennio, la Bce ha faticato a tenere l’inflazione sopra allo zero, supplendo all’inerzia dei governi con politiche non convenzionali come il quantitative easing.

L’intensità e la durata della crisi hanno in quegli anni ispirato una riflessione interessante sulla possibilità che le economie avanzate non tornino più a sperimentare livelli di crescita soddisfacenti. Per l’occasione è stata riesumata un’espressione coniata  dall’economista americano Alvin Hansen negli anni Trenta del secolo scorso: tassi di crescita modesti della popolazione avrebbero frenato l’accumulazione del capitale, cosicché dopo la crisi del 1929 ci si poteva aspettare un periodo di crescita strutturalmente depressa, una “stagnazione secolare”.

La storia ha poi provato che Hansen aveva torto, perché durante tutta la seconda metà del ventesimo secolo l’innovazione tecnologica ha spinto l’accumulazione e la crescita. Tuttavia, dopo la crisi del 2007, il termine è stato ripreso in un contesto simile: un’economia che dopo una crisi devastante lotta per ritrovare il proprio dinamismo.

Risparmi e investimenti

Alcuni, come Robert Gordon della Northwestern University, evidenziano “venti contrari” legati al lato dell’offerta che potrebbero pesare sulla crescita: dall’invecchiamento della popolazione e dai costi per mitigare il riscaldamento climatico che pesano sulle finanze pubbliche, all’effetto combinato della globalizzazione e delle tecnologie dell’informazione, che hanno contribuito al calo dei salari causando un aumento della disuguaglianza, o ancora il deterioramento dei sistemi di istruzione. Questi venti contrari tenderebbero a ridurre l’accumulazione di capitale (principalmente umano), e quindi la futura crescita potenziale.

Altri si concentravano sull’impatto degli stessi fattori sulla domanda: il minore dinamismo del progresso tecnico, il rallentamento della crescita della popolazione, la minore propensione all’indebitamento delle imprese in seguito alla crisi, contribuirebbero a un calo strutturale dei livelli d’investimento privato.

Allo stesso tempo, il fardello del debito, l’accumulazione di riserve precauzionali indotta dall’instabilità finanziaria, l’incremento delle disuguaglianze, accrescerebbero il livello del risparmio. Alti livelli di risparmio e bassi livelli di investimento, nei mercati finanziari comportano un tasso d’interesse di equilibrio vicino allo zero, se non addirittura negativo, e una cronica mancanza di domanda. Si tratta di tendenze secolari che tuttavia prima del 2007 erano state nascoste da bolle speculative, che mantenevano la domanda per consumi artificialmente alta.

L’economia del futuro

La fiammata inflazionistica iniziata nel 2021 ci ha portato in un nuovo mondo: con la ripresa post-Covid, la crisi energetica e infine la guerra, è tornato in auge il termine stagflazione. Le difficoltà dal lato dell’offerta (colli di bottiglia, aumento dei costi di produzione) si coniugano con una domanda vigorosa alimentata dal massiccio ritorno dei risparmi sui mercati nello spiegare l’inflazione, e sembrano indicare che la stagnazione secolare sia di nuovo pronta per i libri di storia.

Certo, è difficile, oggi, immaginare che si possa tornare a breve ad una situazione di cronica insufficienza di domanda. Occorre però, anche in virtù delle caratteristiche peculiari di questo fenomeno inflazionistico, domandarsi a cosa assomiglierà l’economia dei nostri paesi nei prossimi anni.

Ci sono motivi per pensare che lo spettro della stagnazione secolare sia definitivamente dietro di noi: è certo che l’organizzazione dei processi produttivi e la distribuzione settoriale dell’attività che emergeranno alla fine saranno alquanto diversi da quelli cui siamo abituati, e che per certi beni e settori (si pensi alle energie fossili) i prezzi sono destinati a rimanere permanentemente alti.

Non solo. È anche possibile che i colossali investimenti necessari per la transizione ecologica e digitale sostengano l’attività per i decenni a venire. D’altra parte, quasi tutte le ragioni per la compressione di consumi e investimenti che avevano fatto riemergere il concetto di stagnazione secolare sono ancora riunite, e sono anzi destinate se possibile a pesare più di prima: incertezza macroeconomica e geopolitica, invecchiamento della popolazione, disuguaglianza crescente e compressione dei salari, precarietà sui mercati del lavoro, peso crescente del debito (pubblico e privato).

Dopo l’inflazione

Non si può sapere con certezza quale delle due forze avrà il sopravvento. Tuttavia, dovendo azzardare una previsione affermerei che le tendenze di lungo periodo alla stagnazione secolare torneranno a dominare. Mi sembra difficile che gli ingenti investimenti necessari a incamminare le nostre economie sul sentiero della transizione ecologica e digitale possano compensare tendenze strutturali secolari come l’aumento della disuguaglianza, l’incertezza, l’instabilità geopolitica.

Insomma, forse, a tornare nei libri di storia, non sarà la stagnazione secolare, ma l’inflazione. Questo non è particolarmente rassicurante, giacché i responsabili politici dovrebbero continuare a barcamenarsi tra l’accettazione di una cronica carenza di domanda e di crescita e il provare a combattere la stagnazione secolare creando bolle che eliminino gli eccessi di risparmio, al prezzo di un incremento dell’instabilità sistemica e del rischio di crisi finanziarie violente.

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