I tempi in politica sono fondamentali. Lo dimostra la parabola di Giuseppe Conte. Uscito da Palazzo Chigi con un consenso altissimo come nessun capo del governo prima di lui, ha sperperato quel capitale attardandosi a prendere una decisione che era nelle cose: assumere subito la guida dei Cinque stelle. Se avesse colto l’attimo favorevole, adesso il M5s non sarebbe quella terra incognita, priva di un asse portante e di una direzione di marcia.

Nella vicenda delle elezioni del Quirinale chi ha avuto il tempo giusto è stato Silvio Berlusconi. Dopo mesi di surplace, di cui la sua autocandidatura era parte di un gioco di specchi - essendo fuori dal mondo che il munifico finanziatore, con 5 milioni (!, di Ruby Rubacuori, e il condannato per reati fiscali possa assurgere al vertice dello stato –  alla fine è uscito allo scoperto per dettare le sue condizioni: niente Mario Draghi al Quirinale, altrimenti Forza Italia esce dal governo. 

L’ex Cavaliere ha fatto la prima mossa ponendo un aut aut di cui tutti gli altri dovranno ora tener conto. Ha segnato un punto rispetto al Pd, rimasto fermo in attesa di chissà quali eventi. E’ vero che ci sono partiti, come appunto i democratici, in cui vigono regole ed esistono organi statutari che devono essere consultati per arrivare ad una decisione, mentre Forza Italia è solo una sigla al servizio del suo “padrone” (e lo diciamo in senso proprio, visto che FI sopravvive finanziariamente grazie ad un fideiussione di 90 milioni garantita personalmente Berlusconi nel 2013).

Il niet a Mario Draghi lascia spazio solo a due esiti. Uno vede la riproposizione del presidente del Consiglio per il Quirinale da parte di altri membri della coalizione governativa, in quanto egli assomma due caratteristiche che altri non hanno: è il più qualificato di tutti, ed è super partes.

Con questa mossa si va vedere se il diktat di Berlusconi regge, e cioè se la Lega gli va a rimorchio, nonostante il vicesegretario leghista Giancarlo Giorgetti si fosse chiaramente espresso in favore di Draghi.

L’altro prevede l’apertura di una trattativa per un nome che però, a questo punto, non può che essere di gradimento della destra. Perché chi muove per primo, di solito, parte in vantaggio; a meno che buoni scacchisti non rispondano con un abile controsgambetto.

Infine, ma questo è fuori dalla portata dei partiti, c’è il rischio che salti tutto, e sia Draghi, preso atto della sfiducia implicita espressa da Berlusconi, a lasciare il campo libero, tanto per il Quirinale qaunto per Palazzo Chigi. Una bella frittata per il paese.  

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