La Costituzione affida al parlamento in seduta comune, integrato dai delegati delle Regioni, il compito di eleggere ogni sette anni il Capo dello Stato scegliendo una persona che eserciti in pienezza il ruolo per i sette anni successivi. La durata (più lunga di una legislatura) non è un elemento marginale. È strettamente connaturata alle alte funzioni di garanzia che la Costituzione assegna all’inquilino del Quirinale.

Rende anche evidente che il rinnovo del mandato, pur non esplicitamente escluso, contrasta con la logica sottostante.

Pensare che la stessa persona rimanga garante per 14 anni è irragionevole, pensare che il mandato abbia una durata ridotta e variabile, così concepita già al momento del voto, in base alla età dell’eletto o alla durata della legislatura in corso, è in contrasto con la natura dell’incarico e quindi con lo spirito della Costituzione.

Non a caso Sergio Mattarella, ricordando in più occasioni la proposta avanzata già da Antonio Segni, ha suggerito di escludere formalmente il secondo mandato e di cancellare al tempo stesso il semestre bianco, una inopportuna riduzione dei poteri presidenziali introdotta per evitare che il presidente li eserciti in vista della sua rielezione.

In questo caso per i leader di partito non era facile trovare una candidatura condivisa, perché nessuna area politica aveva numeri tra i grandi elettori sufficienti a promuovere la candidatura preferita, e perché le divisioni attraversavano anche ogni area politica e ogni singolo partito.

In momenti diversi sono tuttavia emerse almeno tre ipotesi, corrispondenti a tre diversi profili, su cui avrebbero potuto convergere: eleggere Mario Draghi, un grande statista riconosciuto come persona sopra le parti, o Pier Ferdinando Casini, un politico duttile di lunga esperienza capace di dialogare con tutte le parti, oppure avrebbero potuto continuare a dare, come negli ultimi due anni, agli italiani e dell’Italia, il senso di un paese imprevedibilmente moderno e vitale, eleggendo Presidente della Repubblica Elisabetta Belloni, una grande servitrice dello Stato fuori dalle parti e universalmente apprezzata.

Dall’eccezione alla regola

Hanno invece preferito prendere atto di non sapere assolvere alla responsabilità che la Costituzione assegna loro se non congelando temporaneamente lo status quo. Non siamo più di fronte ad una eccezione, ma a una regolarità che per certi versi assomiglia a una pratica consolidata della Prima Repubblica.

Allora venivano frequentemente costituiti governi a termine, anche detti ponte, balneari o di decantazione, quando i partiti o le correnti Dc non riuscivano a mettersi d’accordo sul formato della maggioranza o sul nome del presidente del Consiglio, o quando preferivano scavallare il tempo residuo precedente alle elezioni senza scegliere.

Qui, per la seconda volta, sotto l’alibi della eccezionalità del momento, e facendo leva sulla straordinaria reputazione dell’uscente, maturata in un settennato ineccepibile, si è pervenuti alla elezione di un capo dello Stato che ha, di fatto, al di là delle formule di rito, un mandato di transizione.

In questo caso, le difficoltà citate, dovute alle divisioni tra le forze politiche, avevano il pregio di imporre la ricerca di un consenso trasversale. Ma se dopo il prossimo voto per il parlamento si dovesse formare invece una maggioranza politicamente omogenea, la stessa “durata della transizione”, cioè del mandato presidenziale, rischia di diventare l’oggetto di una contesa tra chi vorrà difendere l’equilibrio raggiunto ora e chi lo vorrà alterare.

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