Forse domani l’imbarazzante vicenda del Quirinale arriverà a una conclusione dignitosa, o almeno finiranno i giochi degli ultimi giorni che hanno contribuito assai poco alle ragioni di chi difende la democrazia rappresentativa contro quella diretta.

Gli eletti si sono comportati nel modo peggiore agli occhi degli elettori: nessuna trasparenza, nessun senso davvero politico alle manovre. Gli unici che hanno dimostrato una linearità di comportamento sono il premier Mario Draghi e il presidente uscente Sergio Mattarella: il primo si è dichiarato a disposizione delle istituzioni (che altro doveva dire?), il secondo ha detto che non cercava la rielezione e ha iniziato il trasloco.

Il centrodestra, che ha subito rivendicato il diritto di proporre un nome, prima ha finto di credere all’improbabile corsa di Silvio Berlusconi, poi ha trasformato l’elezione della più alta carica dello stato in una questione interna di lotta per la leadership: Matteo Salvini dice che Draghi deve stare a palazzo Chigi e Giorgia Meloni si dissocia, lei propone l’ex magistrato Carlo Nordio e allora lui rilancia: Nordio più Letizia Moratti e Marcello Pera.

Alla prima votazione utile però Meloni non vota nessuno dei tre, schiera le sue truppe e alleati anonimi per l’ex deputato Guido Crosetto e s’inventa una giustificazione assurda (la popolarità di Crosetto sarebbe la dimostrazione della necessità dell’elezione diretta del presidente).

Il Pd di Enrico Letta, come sempre, non riesce a fare altro che cercare l’equilibrio tra le correnti: non ha mai, ma proprio mai, avanzato un nome o una strategia, paralizzato al suo interno e nel rapporto con un alleato a sua volta instabile, quel Movimento Cinque stelle dove comandano tutti e nessuno (di certo non Giuseppe Conte).

Se il bel risultato di tutto questo dovesse essere l’elezione di Pier Ferdinando Casini alla presidenza della Repubblica, la responsabilità sarebbe sicuramente in gran parte del Pd che non soltanto ha recuperato Casini regalandogli un seggio quando il leader dell’Udc si era trovato privo di partito per assenza di elettori, ma ora potrebbe subirne la promozione addirittura a capo dello Stato per insipienza tattica.

E se invece si finirà con il bis dell’81enne Sergio Mattarella, l’Italia darà la prova definitiva che è incapace di produrre classe dirigente, che tutti i leader della seconda repubblica sono così scettici sulle proprie competenze da poter cooptare solo gente più anziana. Draghi, insomma, è l’eccezione a questa mediocrità e quindi mal tollerata.

A suo tempo con Domani ci siamo schierati contro il taglio dei parlamentari perché era una scorciatoia populista per affrontare il problema della sfiducia nella politica. L’unico effetto positivo di quella scelta sbagliata è che almeno un terzo degli onorevoli protagonisti dell’imbarazzante spettacolo di questi giorni non faranno altri danni perché il loro seggio non esisterà più.

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