Su questo giornale Gianfranco Pellegrino ha giustamente lamentato la parabola discendente delle iniziative di Ultima generazione. Già nello scorso inverno era evidente che la logica comunicativa di queste azioni – eclatanti e volutamente soltanto simboliche – a un certo punto avrebbe rischiato di alienarsi le simpatie di molti. Di fronte agli attacchi rabbiosi e sproporzionati di molta politica e media, e allo scetticismo di potenziali sostenitori che avrebbero preferito azioni dirette contro le cause delle emissioni (non contro le opere d’arte), Ultima generazione si è trovata schiacciata in una logica di performance che per avere attenzione doveva sempre trovare un luogo o oggetto simbolico capace di fare notizia senza fare veri danni.

Sebbene tutto questo sia indubbiamente vero, è troppo facile prendersela con Ultima generazione. Ed è anche ingiusto perché il movimento sembra non avere alternative percorribili di fronte all’urgenza del problema. Pellegrino suggerisce di evitare le azioni di rivolta fine a se stesse, di concentrarsi su ciò che può dare risultati concreti ed eventualmente di candidarsi alle prossime elezioni.

Sebbene queste considerazioni siano in generale ragionevoli, nel caso in questione rischiano di non portare a nulla. Se la strategia finora seguita (di disobbedienza civile e comunicativa) non ha dato i suoi frutti, rimangono solo due strade a disposizione: confluire nel mainstream o radicalizzarsi.

Pellegrino suggerisce la prima strada, in modo da portare la questione climatica dentro i partiti. Ciò può voler dire creare un nuovo partito, strada improba e destinata al velleitarismo, o fare battaglia dentro un partito potenzialmente sensibile. Si tratterebbe quindi di portare la questione climatica dentro il Pd. Sebbene l’attuale segreteria sia certamente sensibile alla questione, è ovvio che sarebbe una lotta impari e destinata al fallimento.

O, peggio, destinata a sciogliersi in una mini-corrente del partito. Abbiamo già visto Dario Nardella placcare fisicamente un attivista di Ultima generazione, e rischieremmo di vederlo placcare simbolicamente ogni istanza, rendendo la questione climatica tristemente uguale a una delle tante scaramucce interne al Pd. Quindi l’esigenza di efficacia mal si concilia con l’ipotesi di confluire negli ordinari strumenti di rappresentanza attualmente disponibili.

L’opzione del sabotaggio

L’altra alternativa, radicalizzarsi, è stata finora evitata perché gli attivisti e le attiviste di Ultima generazione hanno sempre mantenuto la loro protesta nell’alveo della civiltà. Proteste che creano disturbo e piccoli shock ma non danni veri e propri a cose, né tantomeno a persone. Eppure, il vincolo della non-violenza e della civiltà non è condiviso da tutti.

Di fronte all’impossibilità di cambiare in fretta e radicalmente la politica e le pratiche della maggioranza, c’è chi sostiene la possibilità di ricorrere a tattiche più battagliere. Andreas Malm (Come far saltare un oleodotto, Ponte alle Grazie) ha sostenuto l’utilità del sabotaggio di suv e di altre piccole azioni di rottura delle cose più inquinanti, al fine di scoraggiarne l’uso e cambiare le abitudini della maggioranza. Ultima generazione è ben lontana da tutto questo e rimane giustamente nell’ambito delle azioni simboliche e comunicative. Ma se invochiamo la necessità di azioni che portano a risultati concreti, il sabotaggio rischia di diventa un’opzione.

Quindi i risultati tangibili ci portano fuori dall’alveo della civiltà, con un evidente rischio di guerriglia sulle cose, mentre la rappresentanza politica sconta riti e tempi alieni alle capacità e ai bisogni dell’attivismo. È questo il paradosso dell’attivismo climatico: di per sé inutile e forse al momento controproducente ma per ora inevitabile per mancanza di alternative percorribili. Una strada molto stretta, che deve inventarsi qualcosa di nuovo per provocare senza danneggiare, e per comunicare senza creare assuefazione.

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