Quando sui social un personaggio pubblico fa il mea culpa per una battuta sostenendo di non aver “studiato” a sufficienza la materia, dovremmo preoccuparci: a quanto pare per non fare pasticci nel mondo contemporaneo ci vogliono laurea, dottorato e corso di aggiornamento. Qualcuno dirà che è solo questione di educazione e buon senso. L’ideologia del decoro, che trasfigura le questioni politiche in rogne di nettezza urbana, ha il suo corrispettivo morale in questa retorica della buona educazione, secondo cui per placare i conflitti a bassa intensità che attraversano la società multiculturale, fondati su oppressioni secolari e divergenze persistenti, basterebbe… comportarsi bene.

Davvero è sufficiente essere una “brava persona” per non fare pasticci?

Le convenzioni cambiano

Sarebbe più opportuno riconoscere che non esistono persone brave o cattive, ma convenzioni mutevoli e rapporti di forza che ci legano in un garbuglio inestricabile di ragioni, abitudini, ignoranze, pregiudizi, incomprensioni, polarizzazioni. Il potere non è soltanto quello visibile, emanato dall’alto; più spesso, come ci ha insegnato Michel Foucault, esso viene dal basso, nella forma di micropoteri invisibili.

La nostra vita è disciplinata da norme non scritte, fluttuanti, localizzate, come per esempio quelle che determinano il modo in cui ci rivolgeremo a una persona sconosciuta per strada. E qualora ne fossimo attratti, come ci comporteremmo per approcciarla?

Grande è la confusione sotto al cielo: ci è voluto il #MeToo per rivelare che quello che molte donne vivono come violenza per alcuni uomini è semplice seduzione o routine coniugale. La buona condotta non è né innata né universale: è una competenza, è una tecnologia, è un marcatore di status.

Imparare a comportarsi

Il problema è che oggi nessuno si occupa di trasmettere queste norme di comportamento. Chi fa l’educazione sentimentale dei giovani maschi e delle giovani femmine? Come veniamo a conoscenza delle parole da dire e da non dire? Chi ci insegna a fare i conti con la diversità culturale, con i suoi inevitabili retaggi patriarcali, senza farci prendere dall’isteria come dei missionari sbarcati in qualche lontana colonia? Certe accortezze appaiono evidenti solo all’interno di specifiche comunità di parlanti. La scuola, con le sue rigidità, serve solo fino a un certo punto.

A forza di ripeterci che “siamo tutti uguali” abbiamo perso la capacità di fare i conti con la diversità in tutto ciò che ha di sfidante: intere generazioni vengono gettate nel mondo senza avere la minima idea di come comportarsi con l’Altro — altro genere, altre classi, altre culture.

Un tempo ci pensava l’arte a educare alla vita, insegnando le differenze: la tragedia denunciava i comportamenti socialmente distruttivi, la letteratura mostrava dei modelli da seguire o non seguire, insomma era impegnata che lo volesse oppure no. Oggi ci restano soltanto le vuote retoriche dell’inclusione: “comportatevi bene”, sì, ma come?

Non abbiamo bisogno di moralismi ma di nuove regole per vivere assieme. Senza dare per scontato nulla. Perché non siano tutti uguali bensì tutti diversi, e non esiste una sola misura per giudicare ogni individuo.

 

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