A trentasette anni dalla sua morte, Michel Foucault è ovunque. Nei grandi dibattiti del nostro tempo aleggia l’influenza del filosofo francese: su sesso e genere innanzitutto, ma anche sulla medicina e in generale sui rapporti tra scienza e potere. Molte delle domande che ci occupano le ha poste lui per primo, esaminando nei suoi libri – sulla follia, la sessualità, la prigione… – la costruzione storica di categorie che sembravano immutabili.

In America, dove le sue opere vengono studiate fin dagli anni Settanta, si ha oggi l’impressione che l’intero spettro politico sia ormai ridotto a uno scontro tra foucaultiani e anti-foucaultiani: i primi impegnati a distruggere il canone occidentale; i secondi che denunciano i danni del cosiddetto “marxismo culturale” e godono della circolazione di ogni calunnia che potrebbe guastare la reputazione del filosofo. Questa polarizzazione caricaturale tuttavia si ottiene al costo di semplificare oltre misura, e spesso di tradire, il pensiero di Foucault, che per il cosiddetto “politicamente corretto” non avrebbe nessuna simpatia. Il modo migliore per rendersene conto è leggere o rileggere i suoi libri; e per accompagnarci nella lettura è da poco uscita per Feltrinelli una monumentale biografia scritta da Didier Eribon (tradotta da Lorenzo Alunni): Michel Foucault. Il filosofo del secolo. Una biografia.

Conformità alle istituzioni

È difficile rendersi conto di quello che Foucault fu per la sua epoca: un best-seller, una star, il filosofo per eccellenza. A consegnarlo a questo destino – e alle 100mila copie vendute di Le parole e le cose, studio storico del 1966 caratterizzato da una scrittura oltremodo barocca – fu una irripetibile convergenza di fattori. Effetto di moda, senza dubbio, e bisogno per una generazione di farla finita con i precedenti modelli culturali come l’esistenzialismo e il materialismo di Jean-Paul Sartre. Quello che mostra benissimo la sua biografia è che Foucault non fu soltanto il prodotto della sua epoca, la quale lo plasmò e ne orientò le evoluzioni, ma più precisamente un prodotto, pur d’eccezione, del sistema di selezione delle élite intellettuali francesi. Eribon racconta ogni singola tappa di una carriera brillante all'interno delle istituzioni, dalle cosiddette «classi preparatorie» all’esame difficilissimo, mandarinale, per entrare all’Ecole Normale Supérieure; dalle continue cooptazioni e contro-cooptazioni fino all’elezione al prestigioso Collège de France a soli 44 anni.

Michel Foucault fu la cosa più lontana da un outsider nel sistema culturale francese, e per qualche anno venne addirittura considerato come l’incarnazione più alta di quel pensiero tecnocratico che andava sotto il nome di strutturalismo, con l’ambizione di fare delle discipline storiche delle vere e proprie “scienze umane”. Il suo stesso stile di scrittura, celebratissimo, non faceva altro che portare al massimo grado di espressione gli stilemi e i preziosismi della prosa da normalien e il gusto per il paradosso imposto dall'esercizio della dissertation. Soltanto l’omosessualità guastava la totale conformità dell’uomo rispetto alle istituzioni che ha attraversato: il suo biografo suggerisce che sia stato proprio questo scarto, vissuto in gioventù come particolarmente doloroso, ad averlo reso tanto sensibile ai fenomeni di esclusione. Un dettaglio biografico, un’anomalia, che ha turbato il regolare processo di riproduzione della classe intellettuale producendo un pensiero pienamente istituzionale e contemporaneamente nuovo.

Anti-marxista per eccellenza

Uomo di potere e di relazioni, oltre che studioso curiosissimo, Foucault si fece innanzitutto conoscere come pensatore esplicitamente anti-marxista, «violentemente anticomunista» (parole sue) e addirittura vicino al gollismo, portatore di una visione della storia incompatibile con i sogni di progresso della generazione precedente. Se l’esistenzialismo era un umanismo – Sartre dixit – il foucaultismo è un antiumanismo. Folgorato dalla lettura di Nietzsche, Foucault sferrava il suo attacco alle categorie universali proponendo uno storicismo radicale che faceva dell’uomo un semplice epifenomeno, un’increspatura prodotta dal movimento di strutture più profonde. Altro che lotta di classe, altro che rivoluzione, la storia non è altro che una continua rimodulazione di rapporti di potere distribuiti a ogni livello, incistati nelle pratiche, nei discorsi, nelle istituzioni, in alto e in basso; i suoi eroi non sono i rivoluzionari ma i cosiddetti pazzi, i devianti, i marginali che si posizionano fuori dall’ordine del discorso.

Ironico dunque che oggi Foucault passi per marxista, sia presso i suoi sostenitori che presso i suoi detrattori, ma non del tutto assurdo: il fluire del tempo ha reso indistinguibili le differenze e ha fatto risaltare le somiglianze, e negli anni 2020 per essere tacciati di marxismo culturale pare che basti fare, assieme a Nietzsche, la genealogia della morale. Già in vita il filosofo aveva subìto un progressivo scivolamento, ritrovandosi all’estrema sinistra per effetto dell’urto del Sessantotto, con scatto felino che conferma la sua capacità di stare nel proprio tempo. Il che non gli ha impedito di esprimere la sua simpatia per certi princìpi classicamente liberali, contro lo stato in nome di una società meno burocratica e meno disciplinare. Gettandosi a corpo perduto nell’impegno per i diritti civili e per le condizioni carcerarie, lo ha fatto con una coerenza che spesso manca ai liberali autoproclamati. Tanto gli è bastato per essere collocato a sinistra, se non addirittura considerato come l’intellettuale di riferimento della sinistra post-marxista. Pure in assenza, a ben guardare, di una vera e propria filosofia politica.

Volontà di sapere

Ancor più ironico, tuttavia, è che Foucault passi per capostipite della cosiddetta sensibilità woke, termine che sussume alcune recenti tendenze della sinistra americana, dagli studi di genere alle politiche dell’identità, associate a una forte politicizzazione delle questioni linguistiche. Tuttavia se la sinistra woke assomigliasse effettivamente alla caricatura che se ne fa, allora Foucault sarebbe l’anti-woke per eccellenza. Là dove il progressismo persegue incessantemente il bene, il filosofo assieme a Bataille preferisce la parte maledetta, quella del Male. Certo l’autore della Storia della sessualità si è interessato alla costruzione sociale della norma, ma innanzitutto per indagare la proliferazione di discorsi sul sesso, quella «volontà di sapere» che nasce con la confessione religiosa, prosegue con la psicanalisi, si realizza nella rivoluzione sessantottina e oggi (aggiungiamo noi) ritroviamo nei tentativi di catalogare lo spettro infinito delle differenze in categorie finissime adatte alla profilazione attraverso i big data. Profeta della liberazione del desiderio e critico della repressione sessuale, Foucault? Tutt’altro: critico di un certo discorso sulla repressione nato con Freud, proseguito con Reich, e diventato alla sua epoca, con Marcuse, un luogo comune… Un discorso che non coglieva il funzionamento paradossale del potere, il quale non si manifesta soltanto in ciò che proibisce ma soprattutto in ciò che permette e nel modo in cui lo permette.

Contro chi sosteneva all'epoca che il personale fosse politico, Foucault rivendicava come supremo atto politico la sottrazione del personale alla sfera del politico. In quegli stessi anni il filosofo commenta la testimonianza di un ermafrodita dell’Ottocento, Herculine Barbin, rifiutando con forza l’idea che esista un «vero sesso», la cui verità debba magari essere stabilita (e riassegnata) dagli psicologi. Cosa direbbe Foucault di fronte alla crescente medicalizzazione delle differenze di genere, che si tratti di cure psicofarmacologiche, ormonali o chirurgiche? A meno di non contraddire le tesi portanti dei suoi libri, abbracciando la biopolitica come solo destino dell’umanità, proverebbe preliminarmente a decostruire i meccanismi sociali che causano l’esclusione.

Sistemi di potere

Quanto al “politicamente corretto”, il filosofo mostra quanta poca simpatia abbia per ogni disciplina del linguaggio nella sua lezione inaugurale al Collège de France, nel 1971: in ogni epoca, secondo lui, «La produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure con la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli». D’altra parte, gli si potrebbe obiettare, proprio perché ogni epoca fissa il suo ordine del discorso, ha senso una battaglia per renderlo più inclusivo. A essere distante dalla sensibilità libertaria di Foucault, tuttavia, è proprio ogni aspirazione a tracciare nuove linee di demarcazione tra norma e deviazione, foss’anche a fin di bene. Così si spiega, ad esempio, la sua critica dell’istituzione psichiatrica, che nutrirà la corrente dell’antipsichiatria, nonché l’impegno contro la legislazione sulla minore età sessuale, posizione oggi molto contestata e che gli è valsa, in tempi recenti, vari attacchi a colpi di fake news. Si è arrivati persino a discutere della damnatio memoriae sul suo nome. Ma nella cosiddetta “cancel culture”, probabilmente, lui vedrebbe l’estrema incarnazione del Panopticon, il grande carcere nel quale ognuno è tenuto sotto controllo dallo sguardo del potere, un potere diffuso che coincide con l’intera società; mentre i moderni rituali di abiura ed espiazione con cui i «devianti» tentano di ottenere perdono per i loro scarti linguistici gli ricorderebbero sempre la confessione. Foucault denuncia nella pretesa di «difendere la società» da minacce vere o presunte un pretesto per estendere il dominio dei dispositivi di potere. Non stupirà quindi che il suo pensiero sia tornato di moda anche per parlare della pandemia, in chiave anti-lockdown, ad esempio nei controversi interventi di Giorgio Agamben.

Tutto ci riporta a Michel Foucault. Col senno di poi, quella che il filosofo ha fatto alla sua epoca era una promessa gigantesca – ripensare la storia alla luce della concatenazione di sistemi di sapere-potere – che ha mantenuto solo in parte: ci restano dei tentativi ambiziosi abbandonati dall’autore stesso (sul concetto di episteme), degli affreschi visionari ampiamente confutati dalla storiografia successiva (sulla follia) e dei grandi progetti incompiuti (sulla sessualità). Jean-Marc Mandosio ha realizzato una critica impietosa di questo progetto filosofico nel suo Longevità di un'impostura: Michel Foucault. Eppure nel movimento del sapere nel suo farsi, di cui le trascrizioni dei corsi al Collège de France sono un documento prezioso, Foucault ha gettato una luce nuova sui recessi oscuri della civiltà moderna.

Volto di sabbia

Si fa presto a dire che la filosofia è inutile, morta, resa obsoleta dal trionfo delle scienze quantitative. Alla fine le questioni di cui passiamo più tempo a discutere, e che poi determinano gli orientamenti politici, sono di ordine valoriale: visioni del mondo, interpretazioni della storia e progetti di futuro – la filosofia non è mai stata così attuale. La scienza si ferma dove inizia il dibattito: condividiamo una certa concezione della realtà biologica ma ci accapigliamo per stabilire cos’è uomo e donna; possiamo prevedere il numero di vittime di una pandemia ma non calcolare in maniera oggettiva qual è il corretto equilibrio tra libertà e sicurezza. Ma allora chi sono i foucaultiani e chi gli anti-foucaultiani? Le posizioni, di tutta evidenza, sono meno evidenti di quanto sembrano. Michel Foucault scriveva che l'uomo è un'invenzione che forse finirà per cancellarsi come un volto di sabbia sul bagnasciuga; e forse vale per lo stesso corpus foucaultiano, che a forza di essere bagnato dalla schiuma delle interpretazioni ha assunto la consistenza del mare.


Didier Eribon è autore del libro Michel Foucault. Il filosofo del secolo. Una biografia, edito da Feltrinelli e tradotto da Lorenzo Alunni

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