Si possono realizzare gli obiettivi del Pnrr se non si mette mano a una riforma dell’amministrazione italiana radicale? Se ponessimo questa domanda a Renato Brunetta, il ministro risponderebbe senza esitare di no, che la riforma è imprescindibile. E aggiungerebbe forse che lui l’ha già tutta in mente, e che anzi considera di averla avviata con successo.

Una storia difficile

Facendo il mestiere dello storico, e avendo un po’ studiato il problema per quanto riguarda il passato, io sarei sul punto un po’ più cauto. Non c’è stato un solo periodo nella storia dell’Italia unita che questa riforma non sia stata invocata (anche nelle aule parlamentari), studiata, fatta oggetto di indagine da parte di autorevoli commissioni, tradotta anche – frequentemente – in provvedimenti di legge.

Successe con Crispi, a fine Ottocento, quando già appariva inattuale il sistema troppo elementare ideato da Cavour in Piemonte alle soglie del Risorgimento, trasferito senza beneficio d’inventario nell’Italia unita; poi di nuovo con Giolitti, quando la prima germinazione degli interessi nella società italiana impose di adeguarvi gli apparati burocratici del tempo (e nacquero a fianco dei ministeri le cosiddette amministrazioni parallele); poi durante e dopo la Grande guerra, quando fu chiara l’incapacità dello stato ad affrontare l’emergenza bellica (e vennero i ministeri di guerra); quindi nel Dopoguerra, sotto la spinta della nascente società delle masse che richiedeva uno stato diverso (e si fecero alcune commissioni d’inchiesta); quindi col fascismo, che proclamò incautamente risolta la questione, salvo doversi poi accorgere che la “sua” riforma (quella del 1923 del ministro De Stefani) non funzionava, anzi confliggeva con gli obiettivi predicati dal regime.

Successe ancora nel Secondo dopoguerra (la Costituente – diciamolo – sul problema amministrativo sorvolò, fu quanto meno laconica); e quindi nelle numerose commissioni dei governi centristi (si creò nel 1950 persino un Ufficio per la riforma burocratica), e in quelle del centro-sinistra, quando il tema divenne come mettere una burocrazia riottosa al passo della programmazione (e contro i riformatori vinse la burocrazia).

Tentativi a vuoto

Venne poi Massimo Severo Giannini, ministro negli ultimi anni Settanta, autore di un importante rapporto nel quale l’analisi dei mali era impietosa e le proposte per sanarli tutte più che ragionevoli: ma il rapporto Giannini fu bellamente archiviato dai ministri successivi. E poi Cassese (per poco più di un anno, troppo poco), e Bassanini (per più tempo, con una legislazione innovatrice ma forse non abbastanza applicata); e poi Brunetta stesso nella sua prima stagione ministeriale, e Madia, e oggi di nuovo Brunetta.

Studi spesso eccellenti, che hanno riempito gli archivi: ma che sono rimasti sulla carta. Se dovessimo citare i veri cambiamenti, dal Dopoguerra a oggi, dovremmo limitarci a tre eventi: la legge sulla dirigenza pubblica del 1972 (sbagliatissima, perché creò un esercito di tutti generali); la creazione dopo il 1975 dell’amministrazione delle regioni a statuto ordinario (che ci si aspettava costituisse l’inversione di marcia decisiva ma invece riprodusse i vizi burocratici della burocrazia centrale); la contrattualizzazione del pubblico impiego del 1993 (giusta, ma poi realizzata con molte contraddizioni e completata estendendola all’alta dirigenza pubblica, che con lo spoils system successivo diventò ancora più preda della politica di turno). Leggi importantissime come ad esempio le norme sulla trasparenza non hanno innescato una vera trasformazione del sistema, che è rimasto quello che era (gerarchico-burocratico) con l’aggravante del sovrapporsi di più modelli, di più situazioni giuridiche dei dipendenti, e con l’intrecciarsi di un groviglio di norme e normette che spesso immobilizza l’azione amministrativa.

La riforma possibile

Che fare, dunque? Bisognerebbe, per agire, essere consapevoli di due elementi: ci vuole un disegno chiaro e coerente, che sviluppi la riforma passo per passo, anche correggendone se sarà il caso gli errori man mano che si procede; e poi occorre tempo a disposizione, per dipanare un’azione costante, lineare, che prosegua da un governo all’altro e da una legislatura alla successiva senza interrompersi a ogni cambio di ministro.

Ma la domanda fondamentale è: che amministrazione serve per mettere in atto il Pnrr e in generale per governare un paese come l’Italia nell’epoca della crisi e del dopo-crisi?

La ricetta oltre l’utopia

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Alcune risposte a questo interrogativo sono già oggi chiare. Per esempio quella che riguarda la selezione del personale: non più solo laureati in legge ma anche competenti nelle molte altre discipline necessarie per bene amministrare; o quella sulla modalità di assunzione: non solo stop – come prescrive del resto la Costituzione – alle ricorrenti assunzioni fuori sacco, agli ope legis, ma riforma profonda dei criteri concorsuali, magari copiando (perché no?) da altri paesi; basta con le prove scritte di massa, largo alle valutazioni attente, intervallate da tirocini pratici che consentano di conoscere davvero i candidati; basta con le infornate a tremila per volta, ma spalmare il reclutamento anno dopo anno (del resto un tempo si teorizzava che i concorsi dovessero seguire di poco le sessioni di laurea, per pescare tra i neo laureati).

Poi c’è il vecchio tema che Massimo Severo Giannini propose già ai tempi della Costituente: organizzare il lavoro amministrativo non più per camere stagne (ministeri, direzioni generali, divisioni, cellette separate) ma per quanto possibile in gruppi di volta in volta aggregati a seconda delle competenze, cui attribuire non generiche funzioni formali ma obiettivi sostanziali, dando ogni volta con chiarezza tempi, percorsi da seguire, valutazioni da effettuare. Il che implicherebbe modificare la struttura stessa del lavoro, chissà forse anche l’architettura degli edifici e gli spazi interni degli uffici.

E insieme unificare le funzioni, oggi frammentate e sparse in capo a soggetti diversi, semplificare i procedimenti barocchi, riscrivere l’inutile modulistica (la via crucis delle carte nelle scrivanie, come scrivevano i riformatori del primo Novecento), intervenire sulla lingua incomprensibile delle burocrazie, sostituire alla comunicazione scritta quella orale. E digitalizzare, certo, digitalizzare molto: ma non solo comprando nuovi computer, piuttosto adeguando la mente di chi li usa alla logica interna del digitale. Che presuppone interconnessione dei cervelli (non solo della rete delle macchine), capacità di ragionare, abolizione delle esasperate divisioni del lavoro e della mentalità che ne deriva.

Siamo, come si sarà capito, a un passo dal regno dell’utopia. Chi conosce i ministeri, ma anche le regioni, o alcuni dei grandi enti pubblici, o i comuni, specie i tanti tra gli ottomila esistenti che hanno piccole o piccolissime dimensioni (anche qui: non si dovranno unificare?) sa quali ostacoli incontrerebbe un progetto come questo. Quali innumerevoli modifiche comporterebbe dell’assetto delle amministrazioni. Ma la modifica più difficile è quella di cambiare i cervelli. L’altro giorno Brunetta e la ministra dell’Università Maria Cristina Messa hanno siglato un’alleanza per facilitare l’iscrizione dei dipendenti pubblici alle università. Bene. Ma avendo passato una vita in tre diversi atenei italiani mi permetto di obiettare: quali università? Le migliori o quelle più vicine a casa? Quali corsi? I più funzionali al grande progetto o quelli soliti con i soliti docenti? Perché – ecco il punto – le più ardite riforme volano alte nel cielo, ma poi prima o poi atterrano: ed è nell’atterraggio che si manifesta la loro inesorabile crisi.

Capisco benissimo che non si potrà in pochi mesi, come ci impone il Pnrr, realizzare simili ambiziose riforme. Si farà come sempre quel che si può. Tuttavia è bene che ciò che si fa non allontani o ostacoli la riforma vera, e che anzi la prepari. E soprattutto che il lavoro non si consideri finito: perché, per bene che vada, siamo solo all’inizio.


Guido Melis, storico della pubblica amministrazione, parteciperà sabato 28 maggio al Festival delle istituzioni di Catania, in un incontro con Francesco Clementi, alle 16 a villa San Saverio. Il festival, alla sua prima edizione, è organizzato da Il Mulino in collaborazione con la Scuola superiore dell’Università di Catania, con il patrocinio di Rai per il sociale, dell’assessorato dei Beni culturali e dell’identità siciliana e del comune di Catania.

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