La letteratura sulla scuola – quella diventata ormai classica, dal Maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi ai romanzi di Domenico Starnone – mette in scena sempre professori in crisi e riflessivi: stanchi di classi affollate e turbolente, provati da esistenze faticose per gli stipendi inadeguati, umiliati per uno status sociale sempre meno dignitoso, finiscono per arrendersi alla routine di inizi e fini d’anno sviluppando un’indole a metà tra il burn-out e un sarcastico disincanto, consapevoli che la condizione della classe docente e della scuola tutta è e sarà immutabile.

Questa figura di docente viene non di rado stigmatizzata – indolente, fuori dal tempo – da coloro che negli ultimi anni hanno evocato cambiamenti radicali nella scuola in nome dell’innovazione. Tra questi ritroviamo spessissimo Andrea Gavosto, editorialista di Repubblica e La Stampa, alternativamente in veste di battitore libero o di presidente/portavoce della Fondazione Agnelli.

La sua convinzione, dichiarata o implicita in ogni suo intervento, è che i mali della scuola si risolvano con un drastico cambio di passo nella gestione, a partire da quella del personale. I criteri di questo cambiamento, secondo Gavosto, sono piuttosto estranei al mondo dell’educazione: produttività, selezione, monitoraggio. Il suo avversario politico sono chiaramente i sindacati considerati come corporativi difensori dello status quo.

Più soldi

Nel suo ultimo articolo, il 13 agosto su Repubblica, ripreso e dibattuto estesamente, Gavosto argomenta a favore la proposta della campagna elettorale del Pd di aumentare gli stipendi degli insegnanti. Questo aumento però, sottolinea Gavosto, non sia indiscriminato ma legato a un maggiore impegno professionale: «Tra scuola e casa, secondo i dati Ocse Talis, gli insegnanti italiani dichiarano di lavorare 26 ore a settimana contro la media europea di 33 ore. Di sicuro l’insegnante coscienzioso ne fan ben di più, ma siamo certi che non ci sia chi si limita al minimo sforzo? La logica di dare poco e chiedere poco va ribaltata».

È una tesi che Gavosto ha già esposto identica nel suo libro uscito pochi mesi fa, La scuola bloccata (Laterza) usandola poi per sostenere la proposta di una diversificazione delle carriere e degli stipendi dei docenti. Nella scuola immaginata da Gavosto si dovrebbero creare figure intermedie tra docenti e dirigenti che abbiano responsabilità di organizzazione del lavoro negli istituti e si dovrebbe valorizzare – leggi monetizzare – la migliore preparazione.

L’idea di contrastare la piaga degli stipendi bassissimi – una perdita di potere d’acquisto di 300 e passa euro al mese rispetto a dieci anni fa al netto dell’inflazione – cominciando a pagarne di più alcuni e aumentando i carichi di lavoro, è un ritornello che torna spesso in voga nelle dichiarazioni degli ultimi anni. Va nella stessa direzione la norma sul “docente esperto” inserita nel decreto Aiuti bis un mese fa dal governo.

Lavoro sommerso

Sul dibattito intorno alla proposta di Gavosto si possono leggere le posizioni polari: per esempio dell’associazione Condorcet che la sposa in toto, o quella di Galatea Vaglio su Valigia Blu che invece confuta sia i dati di partenza che le conclusioni. C’è però una considerazione di base su cui tutti convergono: esiste una quantità di lavoro sommerso che gli insegnanti svolgono senza percepire nessuna retribuzione aggiuntiva.

È la preparazione delle lezioni, la correzione dei compiti, e in qualche modo l’aggiornamento continuo che moltissimi docenti svolgono in modo responsabile, totalmente a loro carico. Questo pluslavoro esiste già, ed è spesso molto rilevante.

Considerarne il plusvalore, anche in termini economici, e persino retroattivamente, vorrebbe dire di per sé garantire una migliore qualità professionale: fosse anche semplicemente perché questo carico di lavoro è svolto in condizioni di consistente precarietà o di autosfruttamento.

Ha senso cominciare a farlo diversificando i salari? O non sarebbe meglio riconoscerlo e cominciare a pagarlo adeguatamente, così da sostenere e responsabilizzare i docenti, che già nel contratto di lavoro sono tenuti a garantire un’alta qualità del servizio. E oltre i soldi, andrebbero forniti agli insegnanti anche una serie di servizi che sono considerati fondamentali oggi per qualunque professione che comprenda anche un importante lavoro di cura: per esempio la possibilità di supervisione, praticamente inesistente.

Basta diversificare

La scuola sta cambiando – per esempio: c’è un aumento rilevante degli alunni con disabilità (da uno a 3,5 per cento dal 1990 a oggi) e ci sarà una diminuzione complessiva degli alunni (meno di un milione nei prossimi anni) – ma sul modello di scuola che vogliamo non c’è un accordo scontato. Questo modello dipende dall’idea di società che abbiamo e sui modi che pensiamo siano giusti per ottenerla.

Per esempio: una maggiore perequazione dei salari, a partire dall’indegna distinzione tra chi è di ruolo e chi ha assegnazioni annuali per esempio, o una formazione di qualità obbligatoria ma gratuita anche per i docenti contengono in sé quei principi costituzionali che prevedono una pedagogia dell’uguaglianza come orizzonte della relazione educativa. Le politiche scolastiche, comprese quelle che riguardano gli stipendi degli insegnanti o i loro compiti, sono il cardine con cui ci pensiamo insieme.

Nel momento in cui riteniamo che ci siano docenti di serie a e docenti di serie b, abbiamo buttato a mare la storia di settant’anni di scuola democratica la cui ispirazione deweyana ha prodotto il miglior riformismo, dalla scuola media unica del 1962 alle norme sull’inclusione alla riforma della scuola elementare del 1985. In nessuno di questi casi la formazione degli insegnanti è stata condizionata a una diversificazione degli stipendi, ma la qualità è stata garantita da investimenti massivi e da progetti didattici di alto profilo.

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