«Noi non faremo la fine dell’Italia », recitava uno degli striscioni della manifestazione di martedì 8 marzo a Parigi contro la riforma delle pensioni del presidente Emmanuel Macron. Uno striscione che dietro al facile slogan nasconde un’acuta osservazione: questa riforma sembra in continuità con quelle effettuate in tutt’altro contesto sociale ed economico dai governi italiani degli anni Novanta e 2000: Amato, Dini, Maroni, Prodi. Un processo che è continuato fino alla riforma Fornero del 2011, quando in piena crisi del debito sovrano è stata ulteriormente aumentata l’età pensionabile – soprattutto quella delle donne - sotto la pressione dei mercati e delle istituzioni europee. Riforme insomma figlie di un’altra epoca: quella in cui, finito il periodo delle vacche grasse degli anni ‘80, per assicurare la sostenibilità dei conti pubblici si è deciso di tagliare pesantemente la spesa sociale.

La Riforma di Macron

Nel 2019, Macron aveva già cercato di mettere ordine nel caotico sistema pensionistico francese, contraddistinto da un elevato numero di “regimi speciali”. La sua proposta di pensione universale, però, era eccessivamente diseguale e pesava troppo sulle fasce medio-basse e troppo poco su quelle alte della popolazione: il risultato furono scioperi di massa e la protesta dei Gilet Jaunes. Poi arrivò il Covid-19, e la riforma restò incompiuta.

Ora Macron ci riprova, ma lo sforzo di semplificare e universalizzare il sistema pensionistico non c’è più. Rimane solo un innalzamento dell’età pensionabile, che peserà principalmente sulle donne a bassa e media retribuzione, quelle che compiono lavori particolarmente gravosi e usuranti.

Lo scopo per nulla nascosto è quello di risparmiare denaro e assicurare la sostenibilità del bilancio pubblico, proprio come nell’Italia degli anni Novanta e 2000. Il mondo però nel frattempo è cambiato: le disuguaglianze sono esplose, e con loro è anche aumentata la consapevolezza da parte di molti sul fatto che non “siamo tutti sulla stessa barca”. C’è chi viene chiamato a fare la propria parte, chi subisce le conseguenze delle crisi, della guerra, dell’inflazione, delle riforme. E chi nel frattempo diventa sempre più ricco.

In Francia questa consapevolezza è diffusa, dall’accademia (tra i più importanti economisti al mondo che si occupano di disuguaglianze ci sono Thomas Piketty e Gabriel Zucman, entrambi francesi) alla politica, dal sindacato ai media. Se ne parla in tv, se ne parla sui luoghi di lavoro, se ne parla nei negozi. Ecco perché le proteste contro la riforma delle pensioni non sono solo molto partecipate, ma anche apprezzate e condivise. Secondo tutti i sondaggi la maggioranza schiacciante dei francesi è contro la riforma, e vorrebbe che a pagare siano i super-ricchi, tramite un innalzamento delle imposte sui grandi patrimoni.

L’Italia, la sinistra, il sindacato

In Italia la situazione è radicalmente diversa. Ad aver effettuato la maggior parte delle riforme pensionistiche sono stati governi di centrosinistra o con appoggio del Partito democratico. Spesso il sindacato, o almeno una sua parte, ha sostenuto queste riforme invece di contrastarle. Grazie agli sforzi dei media, peraltro, la patrimoniale è in Italia un tema tabù, per cui un’imposta sui grandissimi patrimoni viene costantemente equiparata al tassare l’appartamento in provincia ereditato dalla nonna.

Eppure la galassia della sinistra e del centrosinistra in Italia, anche grazie al cambio al vertice del Pd, potrebbe prendere spunto da quello che sta avvenendo in Francia, non tanto sul merito, quello delle pensioni, quanto sul metodo. Le proteste di piazza in Francia sono partecipate innanzitutto perché unitarie. A guidarle è il sindacato, che in Francia è forte, credibile e seguito. Ma in piazza ci sono tutti: dalla France Insoumise di Jean-Luc Mélanchon a quello che rimane del Partito socialista, dai gruppuscoli di estrema sinistra agli studenti, dalla funzione pubblica ai salariati delle grandi imprese.

La prima lezione che la sinistra italiana può trarre dalla piazza francese è dunque quella di costituire una piattaforma unitaria: sindacato, Pd, Movimento 5 stelle possono, e anzi sono obbligati a dialogare e a costruire dalla piazza un’opposizione alla destra meloniana. La seconda lezione è che così facendo, il campo largo della sinistra partitica e sindacale può finalmente imporre un’agenda sua, invece di continuare a subire quella della destra. Questa convergenza potrebbe realizzarsi intorno a parole d’ordine come salario minimo, equità fiscale, reddito di inclusione.

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