La nomina di un nuovo consiglio di amministrazione è imminente e, a contorno, in Senato si parla addirittura di varare nel prossimo futuro una «riforma vera» della Rai, tra lo scetticismo dei cultori della materia e un interesse popolare molto scarso. Tuttavia il tema merita attenzione, quantomeno perché l’industria della comunicazione è una cartina di tornasole che da quasi mezzo secolo mostra tutta la reticenza del paese rispetto alle riforme. Farà il paese, viene da chiedersi, il salto fuori da sé stesso richiesto da Recovery, Pnrr e quant’altro o è tuttora quella contrada più miope di una talpa che a metà anni Settanta mostrò, proprio nel campo della tv, la propensione a sbarazzarsi delle leggi e dello stato, felice di campare a debito e di tagliare le gambe a uno sviluppo perdurante e strutturale?

La storia di quel tempo è ricordata, vagamente, solo da chi ha i capelli bianchi, e da parecchio. Ai più giovani per comprenderla basta aver presente che, da Marconi in poi, l’etere con le sue onde trasporta comunicazione d’ogni tipo. Allora si trattava essenzialmente di tv e radio, mentre oggi il grosso serve ai telefoni portatili. Quelle onde non sono infinite al punto che come l’aria ognuno può averne quanto serve, ma devono essere razionate vagliando costantemente costi e benefici e badando che nessuno se ne impadronisca e ne faccia un privilegio. Esattamente come i marciapiedi, dove il tavolino deve trovare un equilibrio col pedone, i litorali che non possono essere presi dal primo che ci piazza un bar e gli ombrelloni, oppure, argomento attuale, le autostrade che vengono “concesse” in gestione, ma solo a termine. Così vanno le cose in tutto il mondo.

Il Big Bang della tv che abbiamo

Invece in Italia a metà anni ’70 avvenne l’incredibile: quell’etere, come fosse res nullius, venne occupato dalla sera alla mattina da una marmaglia di avventurieri delle antenne che da allora ne hanno ricavato e continuano a ricavarne un ingiustissimo guadagno attraverso l’esercizio di tv e radio, smerciando quel maltolto tra di loro, ottenendo addirittura dallo stato il prezzo del riscatto quando è accaduto (ma accadrà ancora) che quell’etere prezioso serva allo sviluppo della telefonia e della connettività d’ogni natura, privata, d’impresa, militare.

Il Big Bang anni Settanta del “piglio ciò che voglio” cancellò di colpo agli occhi delle masse il confine fra il lecito e l’illecito e mentre le rendeva complici tingeva d’ipocrisia ogni successiva indignazione circa gli “sporchi affari” più tradizionali quali il contrabbando di petrolio, gli abusi edilizi, le mazzette. Si consolidarono anzi visioni e comportamenti che erosero e condannarono perfino al ridicolo ogni organico progetto economico e sociale. Così arrivarono potenti palate di terra sulla politica progettuale e apparve spianata la strada agli eroi del “lasciar fare” non meno che del prendere. Ma questa è storia nazionale.

Generalisti e semi generalisti

Sul piano strettamente televisivo da quelle premesse nacque (né era possibile un esito diverso) il peggior sistema televisivo d’occidente che per cominciare e in un momento, come una valanga, travolse il cinema, l’industria audiovisiva e la stampa. Poi in pochi anni allestì la tragicommedia del duopolio (sistema combinato, a concorrenza zero, fra un monopolista privato, un servizio pubblico bastardo) accudendo nel contempo una giungla con poche tv locali autentiche e un’infinità di ruoli, spartizioni, privilegi e sovvenzioni volte a tenerli tutti buoni come contorno e protezione dei veri padroni del vapore.

La cima di questo mondo, come rileviamo dai dati periodicamente elaborati da Studio Frasi, è occupata oggi dai canali nazionali a una cifra, che trovi sul telecomando con un sol tocco e sono detti “generalisti” solo perché hanno l’obbligo di fare anche informazione, e in particolare il telegiornale, tabernacolo del pluralismo burocratico che salda gli interessi fra politica e tv italiana sotto forma d’interviste calibrate e di “pastone”. La simbiosi fra politica e interessi si è rivelata talmente fertile che oggi l’Italia “gode” di più telegiornali quotidiani di Francia, Inghilterra, Germania e Spagna prese insieme. Le tv generaliste inoltre, ma in effetti la norma vale prevalentemente per la Rai, osservano da qualche tempo anche alcuni obblighi volti a privilegiare la produzione nazionale e tenere a galla, dopo le stragi del passato, la relativa occupazione.

Proseguendo col telecomando a comporre cifre doppie si incontrano dal 10 al 19 le tv locali della zona, poi il tasto dal 20 al 29 con le tv “semi generaliste” forse perché fanno sì l’informazione ma soltanto con i mezzibusti. La definizione è arbitraria quanto basta a trasformare il “semi” in un intero, e così dall’oggi al domani il Canale 20 è diventato la quarta rete generalista di Mediaset per dar man forte al potenziale ridicolo nel mondo, ma fortissimo in Italia, garantito da Canale 5, Italia 1 e Rete 4. Nei tasti successivi si distendono i canali “tematici” e qui apprendiamo che i temi possibili sono sei: bambini&ragazzi, informazione h24, sport, musica e televendite, più la “cultura” che, ma la colpa è certo nostra, fatichiamo a considerare un “genere” perché ci sembra il sale di qualsiasi attività creativa e produttiva. Ad alcuni di questi canali incombe, anche se i più si ingegnano a evaderlo, l’obbligo di qualche pezzo di prodotto nazionale in mezzo alla usuale alluvione di titoli rastrellati sul mercato.

Monopoli e sovvenzioni

Posto che Publitalia, armata dei molteplici canali del Biscione, offre spot anche alle promozioni del droghiere, di cosa campano le tv locali? Intanto degli scambi d’attenzione con la politica comunale e regionale, con le Camere di commercio, con gli imprenditori in vena d’apparire; cui s’aggiunge la sovvenzione dello stato senza la quale chiuderebbero baracca. Il tutto in nome di principî vaghi che alimentano il “Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione” cui si accede iscrivendosi nell’apposito registro presso il ministero dello Sviluppo economico. I sovvenzionati sono in tutto (dati 2021) 434 distinti in “commerciali” (137) e “comunitari” 297. Ai primi vanno da quasi due milioni a 200mila euro. Ai secondi da centomila euro a qualche migliaio. Tanti altri, come pulviscolo del Big Bang non giunto allo stadio d’asteroide, se ne sta semplicemente abbarbicato alla “sua” frequenza occupandola con le pentole o un cartello, come un’anima morta presente nelle liste, ma senza che nel pubblico qualcuno se ne accorga. Nell’attesa che arrivi l’occasione di rivendersi il maltolto.

Chi paga?

A completare il panorama resta ancora una domanda. Da dove sgorgano quei milioni erogati annualmente in sovvenzioni? La risposta è: dritti dritti dal canone, proprio quello che, maledicendo la Rai ed essa sola, ogni utente paga insieme alla bolletta. Così “la più odiata delle tasse”, come dice ogni populista di passaggio, si riversa in buona parte altrove, rispetto alla destinazione conclamata.

Si nota dall’insieme una costante italiana della tv, e supponiamo anche d’altro: il denaro pubblico da un lato fortifica dall’altro stempera i disequilibri nel privato. Così è dove il canone funge da garante del gioco del duopolio, con una Rai scarsa di spot, ma capace comunque di contribuire alla saturazione dell’audience e dei budget della pubblicità, a scorno di ogni eventuale terzo concorrente. Così tutto davvero si confonde: il senso del servizio pubblico, la dignità imprenditoriale del soggetto dominante nel mercato, per non dire dei tanti sparsi a fare la tv di qua e di là, nel nulla del mercato.

Da qui la questione capitale: è possibile un futuro di sviluppo dell’industria audiovisiva che non travolga questa eredità pesante del passato? Sarà mai capace il paese in questo campo di intervenire su sé stesso e darsi nuovi forma e senso? Magari in parlamento qualcuno può farci un pensierino, mentre almanacca la lista delle nomine.

© Riproduzione riservata