Il liberalismo è un’ideologia che nasce sui diritti dell’uomo. Diritti che nel tempo sono stati considerati in modo sempre più ampio e inclusivo: non più solo la vita, la sicurezza e la proprietà privata, come era nell’Ottocento, ma i diritti sociali, quelli civili di prima e poi di seconda generazione (la libertà di amare), quindi i diritti ambientali (che sono anche i diritti umani delle  persone che vengono dopo di noi), fino ai cosiddetti diritti umani «allargati», che coinvolgono le altre specie sensibili oltre a quella umana.

Su queste basi, il liberalismo si è contaminato in modo proficuo prima con il pensiero democratico, quindi dopo la Seconda guerra mondiale con il pensiero socialista riformista, più di recente anche con l’ambientalismo e i movimenti per i diritti civili.

In questa cornice, l’intervento pubblico, attuato nell’ambito della democrazia liberale, è indispensabile per bilanciare fra loro i diversi diritti, che ovviamente possono confliggere (quello alla libertà economica, ad esempio, con i diritti ambientali o con il diritto sociale a un salario equo).

Lo dice anche la nostra Costituzione, che è un esempio fra i più riusciti di questa visione, propria del liberalismo sociale e poi del socialismo democratico (ad esempio, l’articolo 41: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana).

Ricchi e felici?

Il neo-liberalismo è anch’esso (innanzitutto) un’ideologia politica. Affermatosi a partire dagli anni Settanta, si propone come inveramento autentico del pensiero liberale e, in contrapposizione al liberalismo sociale, fra i diritti dell’uomo dà priorità alla libertà economica.

L’arricchimento individuale è considerato la dimensione principale della realizzazione umana (per i più ottimisti, ne dovrebbero discendere anche la democrazia e i diritti).

Il liberalismo è un pensiero politico variegato e complesso, come si è capito, in campo da circa tre secoli e che quindi si è molto differenziato.

Schematizzando, possiamo considerarne il liberalismo sociale, fondato sui diritti dell’uomo progressivamente estesi (fra cui, certo, anche la libertà economica; ma non solo), come il ramo di «sinistra», che dopo la Seconda guerra mondiale è arrivato a incontrarsi con il pensiero socialista e poi ambientalista. Il neo-liberalismo ne rappresenta invece la variante di «destra», secondo alcuni un inveramento autentico dato che propone un ritorno al liberalismo dell’Ottocento, secondo altri studiosi una distorsione, dato che finisce per mettere in secondo piano tutti gli altri diritti e per proporre anche una visione riduttiva dell’essere umano (così ad esempio Michael Freeden: Liberalism. A very Short Introduction, Oxford University Press, 2015).

Negli ultimi decenni, a prevalere è stata la visione neo-liberale. Oggi però trova molti critici, anche nel campo liberale che si sta di nuovo spostando a sinistra. Fra loro diversi economisti di fama internazionale (Atkinson, Milanovic, Piketty, Rodrik) e alcuni premi Nobel (Paul Krugman, Amartya Sen e Joe Stiglitz, fra i più severi; Angus Deaton, Abhijit Banerjee e Ester Duflo, più moderati): vi è un certo consenso sul fatto che le politiche neo-liberali in Occidente hanno fatto crescere le disuguaglianze e indebolito la democrazia; sul fatto che abbiano rallentato la presa di coscienza pubblica e quindi l’intervento in favore dell’ambiente; e infine, secondo alcuni, sul fatto che forniscano legittimazione ideologica al capitalismo autoritario, nelle sue diverse versioni dalla Cina a Dubai, i cui regimi si giustificano proprio con il fatto di promuovere la crescita del Pil, più importante dei diritti umani (non è un caso che il primo paese a provare le politiche neo-liberali sia stato il Cile di Pinochet).

FILE - In this June 25, 1984 file photo, British Prime Minister Margaret Thatcher faces the camera at a summit of European leaders in Fontainebleau, France. At the summit, Thatcher got a financial rebate for Britain. Thatcher's 11-year premiership became increasingly dominated by her opposition to what later became known as the European Union. On Jan. 31, 2020, Britain is scheduled to leave the EU after 47 years. (AP Photo/File)

I difensori del neo-liberalismo ribattono, fra le altre cose, che in questi decenni c’è stata anche la grande convergenza dell’Asia: il più imponente processo di uscita della povertà che si sia mai visto nella storia umana, di cui hanno beneficiato oltre un miliardo di persone.

Ma a parte che nella crescita della Cina l’intervento pubblico è stato tutt’altro che marginale, il punto chiave è che tale crescita si deve soprattutto alla liberalizzazione del commercio internazionale: una politica che storicamente è propria anche del liberalismo di sinistra.

Su questo, il tratto distintivo del neo-liberismo è invece la liberalizzazione della finanza internazionale: la quale non solo non ha favorito la grande convergenza dell’Asia, ma per certi aspetti l’ha rallentata, penalizzando gli investimenti a lungo termine, più produttivi, a vantaggio dei movimenti speculativi; mentre ha reso più difficile nei paesi occidentali attuare politiche redistributive, per attutire i contraccolpi dell’ascesa dell’Asia sulla nostra classe media. Va detto poi che, nonostante sia diventata molto più ricca, la Cina non sta diventando più democratica (come i sostenitori della «fine della storia» pensavano); si registra anzi negli ultimi anni una preoccupante stretta autoritaria.

Chi resta a difendere le virtù del mercato

Naturalmente il dibattito è aperto. Fra coloro che continuano a sostenere le ragioni del neo-liberalismo – cioè della libertà d’impresa e delle virtù del mercato – come chiave più efficace per la realizzazione umana e per il benessere, e come inveramento autentico del pensiero liberale, in ambito internazionale troviamo Deirdre McCloskey, storica dell’economia e brillante scrittrice: il suo libro del 2019 (Why Liberalism Works: How True Liberal Values Produce a Freer More Equal, Prosperous World for All) è una difesa intelligente e appassionata delle principali tesi del neo-liberalismo, perlopiù collocate in un’affascinante prospettiva storica.

Fra gli italiani, ha avuto una certa notorietà Alberto Mingardi (La verità, vi prego, sul neoliberismo. Il poco che c’è, il tanto che manca, Marsilio, 2019), che però sceglie una linea difensiva alquanto originale (di neoliberismo in fondo ce n’è stato poco, e ancor meno in Italia), che curiosamente lo accomuna agli ultimi difensori del comunismo (in Urss non c’era il «vero comunismo»).

Ora si aggiunge Franco Debenedetti, con Fare profitti. Etica dell’impresa, (Marsilio, 2021). Debenedetti non cede al negazionismo. Difende invece le ragioni del neo-liberismo e ne difende anche i risultati, come fa Deirdre McCloskey, proiettandosi sul presente e soprattutto sul futuro.

Fare profitti è interessante soprattutto nella parte, centrale, in cui descrive le trasformazioni dell’impresa «con finalità etiche»: cioè l’impresa che pone fra i suoi obiettivi la sostenibilità ambientale e sociale, perché la sensibilità etica della società evolve in questo senso e spinge quindi il mondo delle imprese, spontaneamente, a realizzare profitti (anche) prestando attenzione ai diritti dei lavoratori e all’impatto sull’ambiente.

Sono i cosiddetti criteri ESG (Environmental, Social, Governance), che proprio negli ultimi anni da nicchia specializzata sono diventati mainstream, e inspirano ormai sempre di più le scelte del mondo finanziario: basti pensare che nel 2019 l’investimento in fondi socialmente responsabili è stato quattro volte superiore al 2018, balzando a 21 miliardi di dollari.

Da Marx a Keynes 

Debenedetti però non si limita a raccontare una storia importante e un po’ sottovalutata (specie in Italia). Ne fa motivo per perorare la libera impresa, e con essa il mercato che si autoregola, come soluzione ai principali problemi che le società umane hanno di fronte; lasciando allo Stato e alla politica il ruolo di predisporre le condizioni minime essenziali, per garantire la migliore competizione possibile. Segue in questo tipicamente l’approccio neo-liberale.

In aggiunta, non riconosce mai legittimità alla visione alternativa presente fra i difensori delle società aperte, quella del liberalismo sociale incentrato su un’economia mista e sulla dignità della politica democratica, la quale può (e quindi deve) compiere scelte fondamentali in campo economico, sociale e ambientale: il dibattito in corso a livello mondiale fra i diversi filoni del liberalismo, e quindi sull’alternativa alla visione neo-liberale, è qui assente.

L’autore assume che quella neo-liberale sia l’unica opzione disponibile per i sostenitori del mondo libero.

È un limite, per un libro così ambizioso. Un limite che per certi aspetti lo rende già datato, nell’impostazione, a dispetto delle parti più interessanti sull’evoluzione dell’etica di impresa o sugli effetti della pandemia; datato all’epoca in cui, negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, il neo-liberismo appariva ai più (perfino alla sinistra riformista) come l’unica ideologia rimasta in campo, fra le rovine della storia. Ma non è così, oggi.

L’avversario di Milton Friedman non è più Karl Marx, ma John Maynard Keynes. E l’alternativa a Reagan e alla Thatcher non è certo l’Unione Sovietica, ma Roosevelt, o la socialdemocrazia europea, o il nuovo Partito democratico di Biden e Sanders.

E il pensiero neo-liberale, che il libro di Debenedetti esprime in modo così esemplare, non è il pensiero liberale tout court, ma una variante, che torna oggi a competere con il liberalismo sociale – non certo con chi vuole abolire la proprietà privata e il capitalismo, come l’autore lascia intendere.

In cosa consiste la competizione fra queste due visioni del liberalismo, nei fatti? Un esempio è il ruolo dello Stato. Debenedetti ne offre un assaggio alle pagine 114-116 di Fare profitti, quando riconosce che per risolvere le disuguaglianze e i problemi ambientali non basta l’impresa, ma è necessario l’intervento pubblico.

Si tratta di un riconoscimento importante. Solo che, a giudizio dell’autore, per risolvere la disuguaglianza (o renderla eticamente accettabile) basterebbe che lo Stato offrisse università pubbliche di qualità, a livello di quelle private. Tutto qui?

Eppure il liberalismo progressista da tempo, già dall’inizio del Novecento, teorizza la necessità di un intervento pubblico ben più incisivo e ambizioso: sia a monte per rimuovere le ragioni delle disuguaglianze nella fase della creazione della ricchezza; sia a valle poi con politiche distributive, che vanno dal welfare per il sostegno alle classi svantaggiate (a partire dalla prima infanzia) alla tassazione progressiva.

Alle misure di redistribuzione, Debenedetti dedica solo accenni, fugaci e addirittura irridenti, limitandosi a dire che ucciderebbero le imprese e la loro capacità di fare profitti (senza entrare in dettagli né tantomeno spiegarne i motivi).

Eppure, la storia insegna ben altro, a partire dall’esempio delle social-democrazie europee. Semmai bisognerebbe porsi il problema di come tornare a rendere le misure redistributive efficaci, in un mondo globale: regolando ad esempio i movimenti finanziari? Con un nuovo accordo internazionale sul modello di Bretton Woods?

Se si riconosce, come pure Debenedetti fa, che l’impresa (anche etica) non basta a risolvere le disuguaglianze e i problemi ambientali, allora non ci si può limitare al modello dello «Stato minimo»: ma le proposte di un nuovo intervento pubblico a favore dell’ambiente e contro le disuguaglianze andrebbero affrontate e discusse in modo serio (con lo stesso rispetto che l’autore tributa ai grandi autori del pensiero neo-liberale, come Milton Friedman).

Il nuovo liberalismo

Queste proposte sono oggi quelle del nuovo liberalismo progressista, di chi cioè vuole tornare alla visione originaria del liberalismo, fondata sui diritti umani allargati; non certo di chi vuole abbattere il capitalismo, ma di chi piuttosto mira a orientarlo e correggerlo.

Sono le proposte della sinistra democratica, che di recente è tornata a vincere nel mondo avanzato (e per la verità anche di una parte dei popolari europei).

Un nuovo liberalismo progressista, fondato sulla collaborazione virtuosa fra pubblico e privato, che è oggi la vera alternativa alla vecchia ideologia neo-liberale.

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