Mezzogiorno? A dispetto di quel che pensano molti, il divario Nord-Sud non è affatto pietrificato nel tempo, né immutabile. Al contrario. E proprio per questo, comprendere le vicende storiche del Sud Italia può aiutare a capire quali sono gli errori da non ripetere.

Può aiutare a valutare meglio le reali possibilità di riuscita della nuova politica meridionalistica che è oggi in campo.

Innanzitutto bisogna dire che il Mezzogiorno ha lottato per liberarsi dalle catene dell’arretratezza sin dall’alba della modernità.

Se poi la grande stagione dell’Illuminismo napoletano non ha dato i frutti sperati, o se la rivoluzione del 1820-21 è stata sconfitta, o i moti del 1848 sono stati repressi dalla reazione borbonica, non lo si deve a una irriducibile fatalità, a una sorta di maledizione che grava su questa terra: la rivoluzione del 1820-21, ad esempio, aveva sostanzialmente vinto dentro i confini del Regno, e pareva avviata a superare il latifondo sul modello di quanto fatto in Francia trent’anni prima, con un’ambiziosa riforma agraria; ma fu repressa dalla «Santa alleanza» internazionale, che rimise sul trono i Borbone.

Sconfitti i tentativi di riforma, il Sud giunse all’appuntamento dell’Unità più arretrato del Nord, destinato quindi a perdere il treno dell’industrializzazione soprattutto per le sue contraddizioni interne: un analfabetismo molto più alto, una maggiore disuguaglianza al suo interno e la più estesa povertà.

Questi fattori a loro volta consolidavano l’assetto estrattivo delle istituzioni (a cominciare dal latifondo) e delle classi dirigenti: quel «blocco agrario» di cui parlava Guido Dorso e che si alleerà opportunisticamente con gli industriali del Nord, reggendo le redini del Paese tanto in età liberale, quanto sotto il fascismo.

Sul finire dell’Ottocento il triangolo industriale comincia a prendere forma e poi «sotto la scure del fascismo», come scriveva Salvemini, la divergenza si accentua ancora di più.

Nel 1951, alla vigilia del miracolo economico, il divario Nord-Sud è ai massimi: al Sud il reddito medio è poco più della metà che nel resto d’Italia. All’incirca come adesso. Ecco, verrebbe da dire: è da allora che non c’è più nulla da fare? Niente affatto. Anzi.

Proprio durante il miracolo economico, quando il Nord cresce come mai in tutta la sua storia, il Sud cresce ancora di più. E l’Italia, tutta, si trasforma un paese ricco e avanzato, grazie a una delle migliori performance al mondo, a quell’epoca. Come è stato possibile?

Una politica davvero straordinaria

La classe dirigente nazionale, sollecitata dai «nuovi meridionalisti» alcuni dei quali erano uomini del Nord (il valtellinese Pasquale Saraceno, il milanese Rodolfo Morandi, il vicentino Giuseppe Cenzato) aveva avviato una politica «straordinaria» di intervento per il Sud Italia senza paragoni fino ad allora in Occidente e che, inizialmente, diede buoni frutti.

La Cassa per il Mezzogiorno realizzava infrastrutture – strade, acquedotti, fognature, ma anche ospedali, scuole, porti – con procedure accelerate e indipendenti dalle pressioni politiche (era il «vincolo esterno», voluto dagli Stati Uniti che inizialmente attraverso la Banca Mondiale finanziarono il progetto). E contemporaneamente, grazie a generosi incentivi, molte imprese si localizzavano al Sud, dapprima quelle pubbliche a fare da apripista, poi a mano a mano anche quelle private (a partire dalla Fiat): sono, le società eredi dell’Iri e gli stabilimenti Fiat, ancora oggi l’ossatura dell’industria meridionale.

Sennonché negli anni Settanta e Ottanta del Novecento questo processo si è interrotto. Sono questi i decenni in cui la criminalità organizzata si fa più forte e pervasiva. Sono gli anni in cui l’intervento straordinario, pur restando consistente, degenera in spesa improduttiva e clientelare; in cui le nostre imprese pubbliche fanno sostanzialmente la stessa fine (per la crisi petrolifera e del modello fordista, certo, ma anche per la malapolitica).

Una grave responsabilità ricade sulla classe dirigente locale – sempre in salda alleanza con quella nazionale – che moltiplica le pressioni clientelari (quando non criminogene) sulle politiche pubbliche: specie attraverso le regioni, istituite nel 1970 e che al Sud cominciarono ad avere sempre più voce in capitolo anche sui programmi della Cassa.

Nel discredito che ne seguì, lo Stato italiano finì per abbandonare l’ambizione di poter cambiare il Mezzogiorno. In questi ultimi vent’anni persino i fondi europei sono stati sostitutivi di quelli ordinari, non aggiuntivi (e qui c’è la responsabilità della classe dirigente nazionale), e peraltro spesso le regioni del Sud non sono nemmeno riusciti a spenderle, men che meno in maniera produttiva (e qui c’è la responsabilità della classe dirigente locale).

Il divario è tornato ad allargarsi. Ma è da notare che quest’ultima fase coincide con il declino dell’Italia tutta, rispetto al resto d’Europa e agli altri paesi avanzati: senza il Sud, anche la «locomotiva del Nord» si è impantanata. Davvero l’Italia è destinata a essere quello che il Mezzogiorno sarà, come scriveva Mazzini.

Ora si apre una fase nuova. La politica meridionalista avviata dal ministro Provenzano poggia su due pilastri, proprio come ai tempi del miracolo economico: gli aiuti alle imprese, questa volta in forma di sconti fiscali per i dipendenti (che hanno il vantaggio di fare emergere il nero); gli investimenti, sia con il Piano Sud e i futuri fondi di coesione, sia con il Next Generation Eu (dalle infrastrutture all’istruzione, all’innovazione).

I costi del contesto

C’è però anche un terzo pilastro, che fu invece trascurato all’epoca della Cassa, e che è parte di una più ampia strategia nazionale, per l’Italia tutta: la riforma e il potenziamento dell’amministrazione. Assieme al rinnovamento della classe dirigente meridionale (dove pure la partita aperta, specie nel centro-sinistra), questa è una partita decisiva – ma è anche la più difficile. Assieme agli investimenti, serve a ridurre i «costi di contesto» del Mezzogiorno, quei costi di contesto che nel frattempo sono compensati dalla fiscalità di vantaggio, temporanea.

È una strategia ambiziosa. Forse è l’ultima chiamata, per il Sud e per l’Italia. Occorre certo tenere ben puntati i riflettori, perché la posta in gioco è alta. Ma intanto bisogna riconoscere tre cose: la sua coerenza, la fondatezza alla luce della teoria economica e anche dell’esperienza storica; il diritto di provarci, a una classe dirigente non compromessa con il passato; non ultimo, il ruolo decisivo dell’Europa.

Difatti noi riceviamo così tanto dal Recovery Fund proprio in virtù dei parametri del nostro Mezzogiorno. Se le classi dirigenti europee hanno capito che non si può abbandonare il Mezzogiorno al suo destino, e che bisogna provarci ancora (magari meglio), sarà ora che lo capiscano anche le classi dirigenti italiane.

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