È un'Italia che fa venire il malumore questa della caccia grossa ai giornalisti, l’Italia che li vuole ubbidienti e rispettosi verso i potenti, l'Italia di una magistratura che si è riappropriata di una sua anima conservatrice se non addirittura reazionaria. La vicenda di Perugia e la messa sotto inchiesta (e in che modo poi!) di Giovanni Tizian, Nello Trocchia e Stefano Vergine è solo l'ultimo segnale dell'aria che tira, del fastidio che monta contro il giornalismo che non vuole calare la testa.

Li stanno quasi facendo passare per mezzi spioni e pure in qualche maniera interessati a commerciare con fantomatici dossier i nostri tre colleghi, dipinti come trafficanti abusivi di notizie, vere naturalmente. E il problema è proprio questo: che le notizie pubblicate da Domani si sono rivelate vere, verissime. Se i tre colleghi avessero diffuso informazioni false o velenosamente pilotate, oggi non staremmo qui a scriverne. Al contrario siamo qui perché hanno fatto centro.
È il giornalismo che fa male, intollerabile per un’Italia sempre più abituata a cronisti embedded, a spacciatori di veline e mattinali dove tutto viene scaraventato in pagina e venduto come “clamoroso” ed “esclusivo“ ma sotto sotto è informazione innocua, che piace, che ammicca, che confonde. Poi tutti che parlano e che esaltano il giornalismo d'inchiesta ma quel giornalismo d'inchiesta deve mantenersi dentro confini ben precisi: stare lontano da casa propria, perché sennò diventa macchina del fango.

A mettere ordine e regole in quest'Italia che sembra godere nell'assoggettamento, così sensibile al fascino dell'inchino - e non mi riferisco all'inchiesta di Perugia ma al clima generale che si respira - sono arrivati, anzi sono tornati i giudici. Dopo gli anni delle inchieste sul terrorismo rosso e nero, dopo la stagione delle indagini sui grandi misteri, dopo le stragi di mafia, gran parte della magistratura di oggi somiglia sempre di più alla magistratura degli anni Sessanta e Settanta, felpata, ossequiosa, posizionata sempre dalla parte giusta, schierata sempre con chi comanda.

Più che un'involuzione, direi che è un recupero del Dna, della propria natura. Perché in realtà ci siamo fatti fuoriviare da uomini e giudici che non hanno mai incarnato il carattere più profondo della magistratura, penso per primo a Giovanni Falcone e al suo "riformismo rivoluzionario” che ha portato scandalo nei palazzi di giustizia italiani. Non a caso è diventato eroe solo quando il becchino l'ha seppellito, sino al giorno prima del 23 maggio 1992 era mal sopportato dalla sua corporazione, lo consideravano una sorta di zar dell'antimafia, un magistrato fuori posto in magistratura. In vita ha dovuto subire le peggio umiliazioni proprio dai suoi colleghi, gli stessi che adesso lo chiamano “Giovanni“ e hanno incorniciato la sua foto sulla scrivania e alla spalle il poster con lui che sorride a Borsellino.

Il richiamo a Giovanni Falcone mi è venuto naturale perché se vado indietro nel tempo, se torno alla mia Sicilia e al giornale, L'Ora, dove ho cominciato scrivere, il ricordo non può che andare ai giornalisti di quel piccolo-grande quotidiano che per quasi mezzo secolo ha raccontato la Sicilia come nessun altro osava. E in quel quasi mezzo secolo i giornalisti dell'Ora sono stati sempre bersaglio del potere e della magistratura, sempre denunciati, processati e immancabilmente condannati per le querele dei Vito Ciancimino o dei Giovanni Gioia e dei loro amici. Fino a quando a Palermo è comparso uno strano giudice che si chiamava Falcone. Ma, proprio come giornalista, come giornalista che ha seguito le anse e le ansie del nostro mestiere confrontandosi da vicino con centinaia e centinaia di magistrati, mi convinco sempre di più che il giudice istruttore Giovanni Falcone in quel mondo abbia rappresentato un'assoluta anomalia.

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