L’Italia si caratterizza da decenni per l’accondiscendenza verso una destra che è apertamente ostile, o indifferente, alle regole della democrazia liberale. Si tratta di un’anomalia rispetto a tutto il resto dell’Occidente e che ci accomuna, semmai, ai paesi dell’Europa orientale (e anche per questo dovrebbe farci riflettere).

Il primo a rompere gli argini fu Silvio Berlusconi, allora imprenditore milanese vicino al Partito socialista. Il 23 novembre 1993, dichiarò che al ballottaggio per il sindaco di Roma «certamente» avrebbe votato per Gianfranco Fini, contro Rutelli.

Fini era a quel tempo il candidato e leader del Movimento sociale italiano, il partito dei neo e post fascisti. Rutelli, candidato della colazione dei «progressisti», veniva invece dal mondo del liberalismo di sinistra e dall’ambientalismo (e sarebbe poi passato alla storia come uno dei migliori sindaci di Roma).

Del resto, quando poi Berlusconi effettivamente andò al governo rappresentò plasticamente la negazione dei principi della democrazia liberale, con il suo conflitto di interessi, agli occhi del mondo (ricordate la copertina di un giornale liberale come lEconomist nel 2001? Unfit to lead Italy). Fra l’altro i suoi giornali e le sue reti attaccavano duramente gli avversari politici, sia esterni che interni alla coalizione; e a quel tempo Tv e stampa erano gli unici canali d’informazione.

Oggi a capo del centro-destra ci sono Meloni e Salvini, che ostentano omaggi a Le Pen e Orbán, Bolsonaro, Trump, Putin. Giorgia Meloni in Spagna è affratellata con Vox, il partito di estrema destra nostalgico del franchismo; e in Polonia con Giustizia e Legge, il partito che sta demolendo la democrazia polacca e, nelle parole della presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, «mette a rischio la democrazia europea».

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Jair Bolsonaro, che Salvini ha voluto incontrare proprio in questi giorni, è, senza dubbio, il personaggio più estremista che abbia mai vinto le elezioni in un paese democratico, dopo Hitler in Germania nel 1933.

Il rivale interno di Salvini, Giorgetti, è certo europeista e liberale. Eppure finora mai nessuno aveva suggerito che attraverso l’elezione del nostro Capo dello Stato si potesse addirittura cambiare l’assetto della repubblica, e la nostra costituzione (di cui quello stesso capo dello Stato è garante): trasformare «di fatto» l’Italia in un sistema semi-presidenziale. A quanto pare, anche nella parte più moderata della Lega si poca familiarità con le regole della democrazia liberale.

Anche ai confini del centro-destra, oggi Matteo Renzi si divide fra l’attività di senatore e quella di lobbying, peraltro per uno dei regimi più oppressivi al mondo (l’Arabia Saudita). Onore a Carlo Calenda che in quell’area è l’unico che lo critica senza mezzi termini per questo doppio lavoro, che peraltro umilia il Parlamento e l’Italia.

Il fatto di avere un centro-destra così anomalo rispetto agi standard di una democrazia liberale caratterizza l’Italia sin dalla nascita della Seconda repubblica. Ed è questo che ha reso il nostro bipolarismo così travagliato, negli anni Novanta e Duemila: i due schieramenti faticavano a riconoscersi l’un l’altro (ma il riconoscimento reciproco è proprio il fondamento della democrazia bipolare).

Oggi, la situazione non è cambiata. Di tutto ciò occorre tenere conto. Non solo per la legge elettorale, o per l’elezione del Capo dello Stato, com’è ovvio. Ma più in generale per il ruolo e le responsabilità che, di riverso, spettano al campo progressista e al Partito democratico.

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