Se c’è una cosa su cui elettrici ed elettori del Pd sono d’accordo è che i problemi del partito non si risolvono con un semplice cambio di segretario. Da quel punto di vista le si è davvero tentate tutte. Il fatto che due leadership così diverse, tra l’altro divaricate ulteriormente da vicende personali, come quella di Matteo Renzi ed Enrico Letta abbiano portato allo stesso risultato percentuale conferma che i problemi siano altrove.

Anche in queste elezioni il segretario non ha fatto altro che seguire lo spartito bussola del Pd dal momento della sua formazione, declinandolo nell’attuale quadro politico assai diverso da quello del 2008: tenere insieme un’area centro-moderata con l’ala sinistra.

Cosa che, in passato, portò alcuni a considerare il partito l’erede naturale del compromesso storico accantonato dopo il sequestro Moro. In fondo, era l’idea veltroniana.

Letta ha, così, tentato un lavoro di mediazione fra Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni da una parte, Emma Bonino e Carlo Calenda dall’altra. Su Renzi è stato fatto il calcolo che facesse perdere più voti di quelli che poteva portare.

Conte si è fatto fuori da solo, decidendo per una nuova svolta populista spinta dai suoi parlamentari e dalla sua base elettorale. Per quanto riguarda Calenda, in che modo avrebbe potuto accettare un’alleanza con Fratoianni e Bonelli, a maggior ragione dopo aver incamerato in Azione Gelmini e Carfagna?

I leader sembrano stati obbligati alle rispettive decisioni consci di quale fosse il loro bacino elettorale. Se così, però, la domanda si sposta verso la cultura politica che abbiamo in Italia.

La famosa vocazione maggioritaria del Pd implicava l’idea di un elettorato che accettasse la possibilità di un governo del partito anche distante dalla propria linea su temi fondamentali come il lavoro, il welfare, il ruolo dello Stato nell’economia. Esattamente come avviene nei grandi sistemi maggioritari, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti.

Sciogliere il Pd

Facile prendersela coi contenitori quando l’immaturità più grande sembra essere di elettrici ed elettori. In tal senso, sciogliere il Pd per andare dove? Per fare cosa? Un partito di sinistra-sinistra per competere con i nuovi Cinque stelle? Enrico Berlinguer insegna: puoi anche arrivare al 34 per cento, ma in Italia non governerai mai. Non tanto per motivi ideologici, ma per una struttura economica, in cui la retorica del conflitto di classe non può penetrare fino a renderti maggioritario.

Peggio che mai, Renzi insegna, se fai il percorso opposto. La coperta risulta sempre troppo corta.

Constato il fallimento di tenere queste due anime in un partito unico, l’unica via sembra quella di ragionare per coalizione.

Piaccia o meno, anche per un banale discorso di brand politico, i voti di sinistra oggi sono intercettati dai 5S. Tutto farebbe, allora, pensare ad un Pd che si sposta verso il centro dello schieramento che si oppone alla destra, in modo da essere complementare.

A Calenda la decisione se fare il nuovo Partito liberale italiano, oppure trovare la sintesi con un’agenda sociale, magari anche rinunciando a qualche punto percentuale.

E torniamo da capo: o l’elettorato cambia e si convince che il muro di Berlino è caduto, oppure la sinistra potrà vincere solo quando la destra si presenta divisa o raggiunge le bassezze dei governi berlusconiani. Ed anche in quel caso fatica.

In Italia, del resto, siamo così ostili ai cambiamenti da non aver elaborato il trauma del crollo di una cortina di ferro  che già se ne sta costruendo un’altra.

© Riproduzione riservata