Fra le tante immagini pionieristiche che ci ha regalato l’insediamento di Giorgia Meloni come prima presidente del Consiglio donna della storia del paese, ai miei occhi, non me ne voglia chi propende per la questione di genere, la più iconica resta lo scambio di poltrona fra Liliana Segre ed Ignazio La Russa. Prima di consegnarla definitivamente agli archivi storici, credo che un’ultima riflessione vada spesa.

Come già mi è capitato di definirla su queste pagine, davvero un’«astuzia della ragione». In molti a destra, a cominciare dal neopresidente del Senato, l’hanno interpretata come momento di rappacificazione e riconciliazione nella storia italiana.

La domanda sorge, però, spontanea: rappacificazione fra chi e cosa? Fra Segre ed i fascisti che l’hanno spedita nei lager nazisti? Gli stessi che l’hanno espulsa da scuola e sottoposta ad infami leggi razziste che restano la macchia più grande nella storia italiana?

Riconciliazione fra vittime e carnefici? Un’aberrazione il solo pensarlo. Sia ben chiaro, un processo di riconciliazione è sempre possibile, anzitutto per la tradizione ebraica animata dallo spirito che ritroviamo nelle celebri parole di Golda Meir: «O arabi, noi vi potremmo un giorno perdonare per aver ucciso i nostri figli, ma non vi perdoneremo mai per averci costretto ad uccidere i vostri».

Basta dare una scorsa al testo biblico, che traccia l’orizzonte valoriale in cui agiscono lo Stato di Israele moderno e l’intera identità ebraica (in molti parlano della Torah come la, mai scritta, costituzione di Israele), per vedere che non c’è mai traccia di una punizione fine a se stessa.

Sempre è inscritta in un processo riparativo, che parta, però, dall’ammissione della colpa e dall’assunzione di responsabilità. Di questo non si è mai avuto traccia nella storia della destra italiana. Tantomeno in quella personale del Presidente La Russa, fiero collezionista dei cimeli del ventennio, fiero oppositore de

L’antifascismo come fosse appannaggio dei suoi nemici storici, apparso sempre mal disposto nei confronti di date solenni del nostro calendario.

Anzitutto, il 25 aprile, giorno sempre da affiancare ad altri, recentemente a quello dell’unità d’Italia; poi, persino, del 27 gennaio, da «annacquare» bilanciandolo con altri massacri, ma della storia nazionale, come ad assimilare fenomeni storici incommensurabilmente diversi.

In principio di questa diciannovesima legislatura, a suo modo storica per molte ragioni, è bene dire che non esiste alcuna possibilità di riconciliazione o pacificazione.

Vittime e carnefici, colpevoli e innocenti sono stati decretati dalla storia tempo fa e da quella distinzione nasce, non solo l’Italia, ma l’Europa moderna.

C’è solo possibilità di conversione. Se la destra ex missina si converte (andrebbe scritto maiuscolo) agli ideali repubblicani nati dalle ceneri della resistenza, se assume su di sé la causa della libertà difesa a spada tratta dalla lotta antifascista, ha piena legittimità di governo e di permanenza nell’agone politico. In caso contrario non potrà che essere vista come forza regressiva che minaccia i diritti democratici.

Nell’episodio biblico del mabul, il cosiddetto diluvio universale di cui abbiamo già scritto in passato, la Torah ci informa che il Signore ha concesso 120 anni a Noè per costruire l’arca.

Ci si chiede come mai un tempo così lungo. Risposta: ha voluto concedere all’umanità un ampio spazio di redenzione e ravvedimento. Siamo ormai nei giorni del centenario della Marcia su Roma, giorno solenne dell’altro calendario, quello fascista.

Sarebbe un ottimo momento per chiarire definitivamente da che parte stava la ragione. Allora, lo scambio di scranno fra La Russa e Segre potrà davvero essere ricordato come momento di riconciliazione.  

© Riproduzione riservata