Durante la “prima ondata” della pandemia ci si chiedeva se ne saremmo usciti migliori. Oggi, nella seconda ondata, si può dire che non è migliorata la cifra della gestione governativa della crisi. Lo dimostrano le anticipazioni relative alla nuova struttura per l’impiego dei fondi del Recovery Plan. Rispetto ad altri Paesi, l’Italia appare in ritardo nella programmazione dell’impiego dei fondi europei. Sul contenuto dei progetti c’è un’opacità pressoché totale. Il 16 settembre il governo ha trasmesso alla Camere le linee guida per il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR), approvate il 13 ottobre, e dal 15 ottobre è iniziata l’interlocuzione con Bruxelles.

Il ministro agli Affari europei, Enzo Amendola, ha ribadito che il piano sarà pronto a inizio gennaio, mentre Conte ha parlato di consegna alla Commissione a inizio febbraio. Al di là delle linee guida, oggi del piano si conosce poco altro.

Chi gestisce i fondi del Recovery Plan

Una norma della legge di Bilancio disporrà la governance per la gestione dei fondi europei: una struttura piramidale, al cui vertice ci saranno un organo politico e uno tecnico.

L’organo politico sarà costituito dal Comitato interministeriale per gli affari europei (Ciae), guidato dal ministro Amendola, ma farà capo anche al presidente del Consiglio, al ministro dell’Economia e a quello dello Sviluppo. L’organo tecnico-esecutivo dovrebbe essere composto da 6 manager. Essi garantiranno, tra l’altro, la realizzazione dei progetti del Recovery Plan nei tempi previsti, anche avvalendosi di poteri speciali: potranno sostituirsi ai soggetti attuatori. I 6 manager saranno coadiuvati da una task force di 300 esperti.

I sei manager 

Molti commenti possono farsi circa la nuova struttura. I tecnici faranno proposte e i politici le valideranno oppure i tecnici si limiteranno a realizzare gli obiettivi definiti dai politici? Sarà bene spiegarlo con trasparenza.

«La tecnostruttura avrà poteri sostitutivi - ha spiegato Conte al Corriere della Sera - Se un progetto ritarda o rischia di essere realizzato male, subentrano i tecnici e commissariano l’opera». I sei manager potranno agire come il commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri. Quindi, per gestire i fondi del PNRR ci saranno sei “mini-Arcuri”, preposti ad ambiti diversi e dotati di analoghe prerogative, al fine di conseguire il risultato prefissato.

A parte l’opinabilità dei risultati ottenuti da Arcuri, la scelta lascia perplessi. Da un lato, i poteri “speciali” stanno divenendo sempre più “normali”, e ciò depotenzia alcune garanzie dell’ordinamento. Dall’altro lato, la gestione commissariale ha dimostrato che chi opera in stato di “eccezione” tende a reputare la trasparenza come un intralcio, mentre essa dovrebbe essere tanto più ampia quanto più i poteri sono straordinari, per consentire a chiunque di sindacarne l’uso.

La task force di 300 esperti

I sei manager saranno supportati da una task force di 300 esperti. La struttura sarebbe destinata a evitare le complessità burocratiche che caratterizzano gli apparati pubblici, specie quelli ministeriali, con i quali essa dovrebbe comunque confrontarsi e interagire, come evidenziato domenica scorsa dal direttore Feltri.

La struttura stessa presenta a propria volta una complessità rilevante. Al momento, non sono chiari i meccanismi di coordinamento all’interno della pletora di soggetti che ne faranno parte, dato che alcuni progetti avranno portata trasversale e, dunque, richiederanno il coinvolgimento di appartenenti ad ambiti diversi.

Non si stenta a immaginare la difficoltà di interlocuzione con soggetti - istituzionali e non – diversi. Inoltre, prima di reclutare 300 nuovi esperti, sarebbe bene considerare le competenze di quelli che già si occupano di gestire fondi europei nell’ambito di strutture esistenti, rispetto alle quali peraltro servirebbe pure prevedere forme di collaborazione, al fine di scongiurare sovrapposizioni di obiettivi e azioni.

La struttura burocratica

Non bastavano le numerose task force composte da centinaia di esperti, istituite in primavera, e delle quali sembrano essersi perse le tracce? La risposta non è scontata come sembrerebbe. Oggi Conte è in una posizione più precaria rispetto ai mesi scorsi, e anche questo può spiegare l’arruolamento di tanti soggetti.

Ciascuno dei 300 esperti, infatti, porta “in dote” una propria rete di sostegno che potrebbe far comodo al presidente del Consiglio.

Ci si domanda però quali saranno i criteri di selezione dei componenti e se tali criteri saranno improntati a quella “diversity” (per genere, età, esperienza anche internazionale ecc.) che assicura decisioni più idonee a contemperare istanze differenti e concomitanti. Peraltro, la moltiplicazione dei soggetti coinvolti amplifica il rischio di conflitti di interessi. 

C’è poi un’ultima domanda: di chi sarà la colpa se le cose andranno male? Sorge il sospetto che la numerosità dei componenti della struttura possa essere preordinata pure a determinare una polverizzazione delle responsabilità.

Il governo spiegherà di essere stato animato da buone intenzioni, mettendo il maggior numero di esperti al servizio del bene comune, e Conte ha già dichiarato che essi sono «il meglio del Paese». Ma resterà il sospetto. Anche perché dopo dieci mesi di pandemia la fiducia scarseggia.

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