- Il recovery fund ha un’importanza storica, per l’Italia, in declino da un quarto di secolo, e per l’Europa, che intravede l’unione fiscale e una vera integrazione politica.
- Il piano del governo sembra però trascurare le principali cause del declino: la supremazia della legge e la responsabilità politica, entrambe troppo deboli.
- La ragione è che le élite italiane convivono serenamente con questi due problemi, e spesso ne beneficiano. Solo la pressione dei cittadini le indurrà ad aggredirli.
La discussione pubblica sul recovery fund si è finalmente accesa. L’occasione è stata la controversa idea di affidarne la gestione a una «cabina di regia». L’efficiente esecuzione degli investimenti è un tema importante, naturalmente, ma secondario rispetto alla loro destinazione. La domanda principale non è come, ma dove investire.
Una prima risposta si trova nella bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza, presentata al Consiglio dei ministri del 7 dicembre. Non è una risposta convincente, a prima vista, e la discussione pubblica deve ora concentrarsi su questo.
Prima di guardare al piano voglio però ricordare la sua importanza. I fondi europei sono ingentissimi, paragonabili solo al Piano Marshall del 1948–52, e per la prima volta nella storia dell’integrazione europea saranno finanziati da debito comune: una scelta che prefigura quell’unione fiscale, vanamente discussa durante tutto lo scorso decennio, che consoliderebbe l’unione monetaria e salderebbe l’unione politica (e potrebbe mettere in sicurezza il debito pubblico italiano).
Il successo del piano europeo si misurerà soprattutto in Italia, vero malato dell’eurozona e principale beneficiario dei fondi. Se l’esito sarà positivo è verosimile che le obiezioni tedesche e di altri all’unione fiscale cadranno; altrimenti questa prospettiva svanirà, e il progetto dell’integrazione europea rischierà di svuotarsi o dissolversi.
Vediamo ora il piano concepito dal governo. Sulla traccia delle linee guida di settembre, esso ripartisce i fondi europei (196 miliardi) su sei missioni – rivoluzione verde e transizione ecologica (74 miliardi); digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (49); infrastrutture per la mobilità sostenibile (28); istruzione e ricerca (19); parità di genere e coesione sociale e territoriale (17); sanità (9) – e indica le riforme collegate a questi investimenti.
L’analisi incompiuta del declino
Molte riforme paiono condivisibili, e le previsioni sugli effetti che questi investimenti avranno sulla crescita del Pil nel periodo 2021–26 sono incoraggianti. Ma la visione del futuro che il piano offre pare debole, come scrive Andrea Roventini su Domani, e poco plausibile, perché non si regge su un’analisi compiuta delle cause del declino dell’Italia.
Le principali sono due, a mio parere: la supremazia della legge e la responsabilità politica, entrambe troppo deboli. In una parola, concorrenza, innovazione, produttività e redditi ristagnano soprattutto perché le regole sono poco rispettate; questo problema persiste soprattutto perché i cittadini hanno scarso controllo su chi li governa, che pertanto ha scarso interesse a rafforzare il rispetto della legge; e questo circolo vizioso crea sfiducia politica, inceppa la democrazia rappresentativa, e alimenta la demagogia politica.
Problemi simili affliggono anche altre democrazie occidentali, naturalmente, ma in nessuna paiono così gravi: nessuna, del resto, è regredita ai livelli di benessere materiale della metà degli anni Novanta.
Guardando il piano attraverso la lente di questa interpretazione, l’enfasi sulla riforma della giustizia e della pubblica amministrazione è benvenuta. Ma la supremazia della legge non è un obiettivo autonomo, nonostante la manifesta gravità del problema, e la responsabilità politica è del tutto ignorata.
Nel piano anzi manca «l’indicazione dei miglioramenti misurabili del benessere collettivo» che il governo si attende da ciascun investimento o riforma. Oltre a essere richiesta dalle regole europee, l’indicazione di risultati attesi misurabili è anche cruciale fattore di responsabilità politica, perché si trasforma in criterio per giudicare l’operato dei governi e li spinge a investire il proprio capitale politico sul raggiungimento dei risultati promessi.
Una delle ragioni del fallimento di molte delle numerosissime riforme degli scorsi decenni è proprio la debole responsabilità politica.
Ritorno al passato
«Non possiamo permetterci di ritornare allo status quo precedente a questa crisi», dichiara il governo nella premessa del piano: ma questo è esattamente il rischio che correremmo se trascurassimo quei due problemi.
La pressione pubblica sul governo deve crescere, dunque, per spingerlo a produrre un piano migliore e poi ad attuarlo efficacemente. Se il futuro dell’Italia, e forse anche dell’Europa, dipende da questo piano, le nostre élite politiche devono persuadersi che da esso dipende anche il loro futuro.
La fonte della pressione non può che essere la discussione pubblica, alimentata dai media e da chiunque ha un pulpito per parlare. Di per sé il dibattito contribuirà a migliorare il piano, perché le conoscenze necessarie a definirlo non sono concentrate nelle mani del governo ma sono diffuse; e un piano del genere, che richiede l’adesione corale e convinta della società, non sarà credibile se non uscirà da una discussione larga e aperta.
Ma la pressione è necessaria soprattutto perché le nostre élite politiche – assieme a quelle economiche – sono esse stesse figlie dei problemi che dovrebbero affrontare: sono il prodotto di un sistema nel quale la supremazia della legge e la responsabilità politica sono deboli. Con questi due problemi esse convivono serenamente, e spesso ne beneficiano: senza la pressione dei cittadini non li aggrediranno.
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