L’italica Agcom ha sanzionato Fox per 62.500 euro perché lo scorso 12 marzo ha trasmesso alle 18 nella banda 100 (Sky) un episodio dei Griffin, noto e sarcastico cartoon Disney per i grandi. Stavolta, apriti cielo, è toccata a Giuseppe, Madonna e bambinello (dallo sguardo discoletto) ed è scattata la denuncia di due Talebani della Lega perché quella è la fascia oraria che tutela l’innocenza dei bambini (sarà per questo che Canale5 destina quell’ora al fiabesco horror picture show di Barbara D’Urso).

A rimarcare il senso della multa provvede il senatore Simone Pillon: «Si tratta di un segnale chiaro: l'educazione dei bambini, specialmente su temi sensibili come la religione o la morale sessuale spetta ai genitori, e non ai messaggi ideologici dei big media o delle lobby».

Da Kabul a Riad tutti plaudono ovviamente all’esempio dell’Italia e qualcuno in vena di anti media potrebbe anche lodare l’esempio dei cinesi che hanno tagliato ai loro bimbi, che siano han, mongoli o uiguri, il tempo di videogioco online limitandolo a non più di tre ore nei giorni del weekend per stroncare il giocare praticamente permanente di moltissimi. Un provvedimento dispotico in nome dell’interesse collettivo, di quelli che, come il green pass, fa venire l’orticaria anche a qualche professore. E può darsi che anche in Cina tutto si riduca a rendere infuriati i piccoli cinesi predisponendo la rovina futura del Partito.

Due dispotismi, ma diversi

I due dispotismi sono assai diversi, non meno di cavoli e merenda. L’Agcom di Pillon attacca un contenuto e il fare dissacrante in quanto tale, quando prende per i fondelli il sacro della santa tradizione; l’ordine cinese delibera, molto più materialisticamente, la riduzione del tempo di consumo. La prima strizza l’occhio alle morali tremebonde; il secondo sventa l’uso sui bambini del modello di business detto dell’engagement, per cui cominci a far qualcosa e con mille trucchi d’algoritmo sei schiavizzato a continuare. E su questo è difficile non essere d’accordo a meno di non pensare la famosa “centralità del consumatore” consista nell’inchiodare quel poveretto al centro di un bersaglio e che i primi chiodi gli vadano fissati ancora da bambino.

Quanto a chiodi, quelli dei videogame sono fortissimi perché uniscono la forza di una qualche stereotipica vicenda (la bella da salvare, il mostro da sconfiggere) al coinvolgimento diretto dell’utente, chiamato a venire lui stesso a capo della sfida. Il composto è irresistibile e nessuno può resistere, ma tutto sta ad incominciare e giungere a sentirsi “abili” quanto basta a provare gusto nel giocare.

Proprio qui s’innesta l’unica, autentica, sincera preoccupazione dei fabbricanti di videogame online, che siano i cinesi sotto la frusta del partito o quelli americani in ansia per il business. Non piangono per la perdita dei quattro soldini di paghetta spesi dai bambini per arricchire il gioco oltre il formato base. Le tasche dei bambini sono corte e i soldi in ballo non superano il 2 per cento dei ricavi delle aziende.

La vera preoccupazione è che disinflazionando il tempo dedicato al videogioco si attenui la familiarità con quei gesti e quelle situazioni, che quelle abilità non si sedimentino adeguatamente nella mente e, in conclusione, il futuro adulto non abbia tanta voglia di giocare o, peggio ancora, usi il suo tempo libero in tutt’altro modo. E allora sì che verrebbero a mancare soldi veri. Con più certezza di quanto verrà a mancare la fede agli adulti esposti ancora bimbi a I Griffin. Chiarita in questo modo la vera posta in gioco quanto a tutela dei bambini, cioè il non farne schiavi per impedire che da adulti divengano sovrani, ci sediamo ad aspettare che l’Agcom si svegli dal sonno della sua ragione e scacci via i mostri della pedagogia da quattro soldi.

La vita è il gioco

A proposito, qualcuno si starà certo chiedendo se non stiamo per caso esagerando e se sarà poi vero che nella forma mentis del bambino si plasma e si antivede quella dell’adulto. A noi pare evidente che la vita è cognitivamente un sogno che si rigira su sé stesso, ma emotivamente un gioco che si prolunga dall’infanzia. E per chi ancora dubitasse, soccorre l’esperienza delle coorti generazionali che crebbero coi Puffi e Cristina d’Avena negli anni Ottanta e, a giudicare dal pubblico dell’auditel, hanno per sempre costituito il nerbo degli spettatori di Canale5.

La familiarità con un’estetica, con quei modi narrativi e chissà quale altro requisito strutturale hanno creato un “tipo” di spettatore e costruito il profilo editoriale di un canale, trasformando un’intera generazione in una cerchia e la caccia all’ascolto in una rendita. Tutto sta a vedere se questi giochetti fatti sotto il naso dobbiamo prenderli per innocenti pratiche di marketing o se ce ne dobbiamo, invece, preoccupare.

© Riproduzione riservata