I femminicidi non sono: un’emergenza, una tragica fatalità, frutto del raptus di un uomo psicologicamente fragile o alcolista o drogato, espressione di un amore malato o di una folle gelosia, esiti di contesti degradati.

Chi li definisce così, anche inconsapevolmente, non sa di cosa parla e si fa portatore del giustificazionismo che consente a quel crimine di riprodursi, a quell’uomo di essere compatito, a quella donna di sparire con il suo coraggio e la sua voglia di libertà.

I femminicidi sono: un crimine di odio misogino studiato nel dettaglio, l’affermazione di potere di un uomo che non tollera l’autonomia delle donne, l’ultimo e più grave atto discriminatorio all’esito di una catena infinita di violenze che tutti conoscono e nessuno riconosce.

I modelli familiari

Ne siamo tutti complici, a partire dai modelli trasmessi nelle nostre famiglie, in cui il padre impone i suoi ordini e voleri, gioca a calcetto all’ora di cena perché ha lavorato tutto il giorno e pretende di non prendersi cura dei figli e delle esigenze domestiche perché lui porta i soldi a casa; mentre la madre rinuncia alle sue ambizioni, al suo lavoro, alla sua arte, alle sue amicizie, ai suoi guadagni, al suo sport perché le spettano tutte le incombenze familiari. È roba da donne. È normale. Se non lo fa viene colpevolizzata: cattiva madre, cattiva moglie, punita e isolata dal contesto sociale e familiare.

Questa è la nostra cultura, entra anche nei commissariati, nelle stazioni dei carabinieri, nelle aule di giustizia dove un uomo che, urlando, esige di trovare la cena pronta da una donna che torna da turni massacranti in ospedale; che appella la compagna “prostituta” davanti ai figli perché chatta con le amiche o si trucca per andare alla cena di lavoro; che picchia la compagna perché non ha stirato le camicie, ha scotto la pasta, non ha comprato le lamette per la barba o non è andata a fare compagnia alla suocera, è tradotto come una banalissima “lite familiare”.

Noi non vediamo la discriminazione di potere di un uomo nei confronti di una donna, il cui apice è il femminicidio, perché la respiriamo nei nostri rapporti sociali e familiari ogni giorno, a partire dalle barzellette, dall’odio on line, dalla compressione del talento femminile e dalla sua omissione nel linguaggio.

La normalizziamo, la sottovalutiamo, la chiamiamo in un altro modo per giustificarla, per non vederla, perché ne siamo a nostra volta vittime e artefici nel nostro contesto. Uomini e donne. Noi non sappiamo decrittare cos’è la libertà di una donna perché non la riteniamo innanzitutto un diritto umano inalienabile da garantire sempre e ovunque. Alle nostre figlie, quando escono, intimiamo «stai attenta». A chi, a cosa? Loro sanno di essere trasformate ogni giorno in prede. Ma di chi? Di uomini che escono e a cui non intimiamo nulla.

La Commissione sul femminicidio del Senato italiano ha accertato che solo il 15 per cento delle donne uccise da un uomo aveva denunciato le violenze che subiva in famiglia o nella relazione di coppia.

Le donne temono di non essere credute dalle istituzioni e che la loro denuncia possa ritorcersi contro di loro, proprio da chi dovrebbe proteggerle. E avviene.

Vittimizzazione secondaria

Si chiama vittimizzazione secondaria, è vietata ad ogni poliziotto, medico, magistrato, carabiniere, avvocato, assistente sociale, psicologo ed è il motivo per cui la Corte europea per i diritti umani ha definito il processo penale “un calvario”.

Cosa aveva fatto per essere picchiata, perché lo ha innervosito, perché non ha invitato anche suo marito alla cena con i colleghi, con chi chattava, perché ha bevuto, è vero che non si occupava dei figli e stava sempre a lavoro, come era vestita, ha avuto relazioni extra coniugali, dove le è stata messa precisamente la mano, per quanti secondi, perché non è scappata, perché non si è fatta accompagnare da suo padre, perché ha accettato di rivedere l’uomo che la minacciava, perché non si è separata?

Queste sono le domande che ancora vengono rivolte ad una donna che denuncia una violenza, anche dai giornali, che la trasformano nella vera imputata perché mette a rischio un sistema che da millenni normalizza l’assenza di libertà femminile. Molte denunce, anche quando raccontano di umiliazioni, denigrazioni, imposizioni, parolacce, sputi, schiaffi si traducono, troppo spesso, in banali “liti familiari” e questo anche se per presentare quella denuncia si è messo a rischio tutto (figli, affetti, amicizie, lavoro, denaro). “Tra moglie e marito non mettere il dito” è questo il monito culturale che impone l’omertà sulla violenza contro le donne, e non si ferma sull’uscio di casa perché attraversa qualsiasi luogo: dalle famiglie ai teatri. È come se ad un commerciante a cui tagliano le gomme, per l’ennesima volta, per non aver pagato il pizzo alla mafia dicessimo di tornare al negozio e non preoccuparsi, forse vede troppi film in tv, la mafia in quella zona non c’è mai stata, saranno stati dei balordi, “le faremo sapere, ci aggiorni”.

Il contrasto alla violenza contro le donne, tra i più difficili fenomeni criminali del mondo, ha fatto enormi passi avanti, ma non è per nessuno, in concreto, una vera priorità perché richiede un’operazione di “sradicamento”. Vuol dire andare alle sue radici millenarie, quelle imbevute dell’odio misogino che riempie, con milioni di volumi, le biblioteche del mondo e il nostro sapere, anche giuridico.

Non è questione da donne, è un problema degli uomini per il quale ancora troppo pochi prendono parola per non dismettere i loro privilegi. Solo insieme ce la possiamo e ce la dobbiamo fare, senza alibi, perché il nostro Paese, culla del diritto, dell’arte e del pensiero, ha tutti gli strumenti per mettere in discussione gli stereotipi incistati di cui siamo tutti portatori, disvelandoli con coraggio. Dobbiamo solo decidere quando farlo, sapendo che, nell’attesa, le donne vengono uccise.

 

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