La segreteria di Enrico Letta costituisce un’occasione difficilmente ripetibile del Pd per rilanciare il progetto originario nato dall’Ulivo. In questa prospettiva è però necessario affrontare due questioni cruciali fra loro collegate: come ridefinire l’offerta politica del partito e come delineare l’assetto istituzionale più coerente con tale obiettivo. Democrazia maggioritaria o negoziale? Il neosegretario ha fustigato giustamente il “partito del potere”, il partito delle correnti. Occorrerà però approfondire presto le coordinate programmatiche che possano rilanciare il Pd, dopo un percorso che ha visto calare drasticamente il consenso dei gruppi sociali più deboli e ha portato a perdite consistenti anche tra vecchi e nuovi ceti medi.

La competizione al centro per vincere le elezioni ha ridotto le capacità dei partiti di rappresentare i gruppi più deboli. Foto lapresse

E la socialdemocrazia?

Molti protagonisti della parabola del Pd si giustificano sottolineando che le difficoltà della sinistra si sono manifestate in tutti i paesi europei e notano spesso, confortati anche da autorevoli commentatori, come l’esperienza delle socialdemocrazie sia ormai esaurita. In realtà di esaurimento non si può parlare. È vero che anche le socialdemocrazie del centronord Europa si sono dovute misurare con la perdita di consensi tra i gruppi sociali più deboli, attratti dall’appello anti-immigrazione e anti-establishment della nuova destra radicale. Tuttavia, specie nei paesi nordici, le perdite sono state più contenute e i partiti di sinistra sono riusciti a trattenere quote consistenti dell’elettorato tradizionale e a costruire coalizioni con settori significativi dei nuovi ceti medi (in particolare tra gli addetti al settore socioculturale a forte presenza femminile). Uno sguardo al percorso di questi partiti può aiutare a gettar luce sulle difficoltà incontrate dal Pd.

Anzitutto, sul piano delle politiche non sono state adottate misure meramente deregolative del mercato del lavoro e delle relazioni industriali o di semplice ridimensionamento del welfare. Prevalgono piuttosto interventi volti a garantire alle imprese flessibilità, elevata qualificazione del capitale umano e sostegno alla produttività attraverso le relazioni industriali, le politiche attive del lavoro e quelle per l’innovazione. Dal lato del lavoro si è puntato non a ridimensionare il welfare ma a ricalibrarlo, spostando l’equilibrio dai rischi tradizionali ai nuovi rischi sociali legati alla maggiore discontinuità dei rapporti d’impiego e alla crescita dell’occupazione femminile.

Per quel che riguarda l’assetto politico-istituzionale, il radicamento di una forte tradizione socialdemocratica legata alla maggiore unità della sinistra, e i più stretti rapporti tra partiti di sinistra e sindacati, sostengono forme radicate di concertazione tra governo e grandi organizzazioni di rappresentanza delle imprese e del mondo del lavoro. Prevale insomma una democrazia negoziale – molto distante da quella maggioritaria dei paesi anglosassoni – che si basa su un sistema elettorale proporzionale con governi di coalizione, oltre che sulla concertazione. Il risultato è una crescita inclusiva con le più basse disuguaglianze tra le democrazie avanzate.

L’esperienza della “socialdemocrazia post-fordista” è dunque molto diversa da quella del Pd. Sin dall’inizio, con la scelta stessa del nome – partito democratico – e con l’imprinting della segreteria di Walter Veltroni si guardava all’esperienza americana prospettando un «partito a vocazione maggioritaria» che avrebbe dovuto raccogliere le forze della sinistra per competere sulla base di un sistema elettorale maggioritario con una destra anch’essa ricompattata, in una logica bipolare di alternanza, e possibilmente in futuro bipartitica.

Al servizio del leader

Dunque un partito di sinistra orientato a diventare una “macchina elettorale” al servizio di un leader eletto in forma plebiscitaria con il meccanismo delle primarie aperte anche ai non iscritti (un modello estraneo a quasi tutti i partiti socialisti europei). Com’è noto, questa impostazione sarà poi portata avanti in forme radicali con il renzismo, proiettandosi sul piano delle politiche con l’esperienza di governo. In questa prospettiva, se per il partito lo slogan di successo è “rottamazione” della vecchia classe dirigente, per il governo è “disintermediazione”. Occorre cioè svincolarsi da rapporti di concertazione con le organizzazioni sindacali e dialogare direttamente con le imprese offrendo bonus e incentivi. Altre misure distributive a breve sono rivolte anche ai ceti medi dipendenti. Ma l’accento è posto soprattutto su politiche di deregolazione del mercato del lavoro ispirate da una cultura economica liberista, fiduciosa nella capacità del mercato di risolvere non solo i problemi della crescita ma anche quelli delle disuguaglianze. Il quadro si completa con una consistente proposta di riforma costituzionale e con una nuova legge elettorale, volte alla piena realizzazione di una democrazia maggioritaria.

I risultati di questo tentativo di ricollocamento verso il centro e di accreditamento nei riguardi dell’elettorato di centrodestra sono stati fallimentari. Alle elezioni del 2018 il Pd non solo perde quote consistenti dei gruppi sociali più deboli ma anche componenti significative dei ceti medi vecchi e nuovi. La segreteria Zingaretti ha cercato di turare la falla, ma i nodi di fondo della collocazione programmatica e dell’offerta politica del Pd non sono stati sciolti. Con essi deve dunque misurarsi l’impegno di Letta, cercando una risposta a due interrogativi principali.

Il primo riguarda i riferimenti culturali e lo strumentario ai quali attingere. Un partito di sinistra europeo che si muove nel pieno rispetto dell’economia di mercato e della democrazia rappresentativa non può non avere nella sua “ragione sociale” il contrasto delle disuguaglianze, come ha sottolineato Letta. Ma non può puntare a una crescita inclusiva senza recuperare una capacità di rappresentanza dei gruppi più deboli. Può bastare il liberalismo per perseguire questi obiettivi? O bisogna guardare anche alle esperienze maturate nell’ambito delle socialdemocrazie più consolidate? In questi contesti sono state infatti sperimentate politiche nuove dal lato dell’offerta, che fanno della redistribuzione uno strumento per contrastare le disuguaglianze e insieme sostenere la crescita, uscendo dall’alternativa tra liberismo e keynesismo tradizionale.

La seconda questione riguarda le condizioni politico-istituzionali. Letta, insieme a molti protagonisti dell’Ulivo, ritiene che occorra guardare ancora alla democrazia maggioritaria e al suo sistema elettorale, ma questo riferimento rischia di essere in contrasto con il modello di partito da lui stesso tracciato: un partito non leaderistico, capace di contrastare le disuguaglianze e di aprirsi alla partecipazione e al dialogo sociale con le forze imprenditoriali e sindacali e i corpi intermedi – tutte caratteristiche che si ritrovano nella democrazia negoziale europea, dove prevale ovunque un sistema elettorale proporzionale, da noi erroneamente ritenuto sempre come una patologia.

La democrazia maggioritaria spinge invece verso una maggiore personalizzazione della leadership e una verticalizzazione del potere, non favorisce il dialogo e comporta un indebolimento dei partiti al quale Letta sembra giustamente contrario. È vero che questo modello ha funzionato in passato nei paesi anglosassoni, e specie negli Stati Uniti, spingendo verso il centro le principali forze politiche per vincere le elezioni e favorendo la cooperazione tra di loro. Ma ciò è avvenuto soprattutto negli anni del grande sviluppo post bellico e in contesti di bassa divisione e conflittualità tra le forze politiche. Nella fase più recente, di fronte ai processi di destabilizzazione sociale generati dalla globalizzazione e dalle trasformazioni dell’economia, la competizione al centro per vincere le elezioni ha ridotto le capacità dei partiti tradizionali di rappresentare i gruppi più deboli e di mediare le nuove tensioni sociali. Non solo perché gli elettori centrali di ceto medio sono decisivi per i partiti, ma anche perché essi sono meno favorevoli a forme di redistribuzione che comportano alta tassazione.

Da qui le nuove tensioni che sono state sfruttate da abili imprenditori politici per radicalizzare gli orientamenti dei gruppi più deboli generando polarizzazione e nuovi conflitti (si pensi a Trump e alla Brexit). Siamo sicuri dunque che la democrazia maggioritaria sia oggi il terreno più favorevole per un partito dello sviluppo inclusivo?

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