Era già successo in passato: quando qualche cambiamento di Twitter non viene apprezzato dalla base degli utenti, in tanti minacciano di abbandonare la piattaforma fondata da Jack Dorsey. Figuriamoci quando il cambiamento in questione è niente meno che il passaggio di proprietà nelle mani di Elon Musk. E così, ancora una volta, le preoccupazioni di casa Twitter sono diventate una grande pubblicità per Mastodon, il social network decentralizzato, open source e senza pubblicità fondato nell’ottobre 2016 dal programmatore Eugen Rochko.

A prima vista, si potrebbe avere l’impressione che sia in corso uno spostamento epocale. Su Twitter si sprecano i post in cui gli utenti danno (o minacciano) l’addio alla piattaforma, lo stesso Mastodon è entrato tra i trending topic che segnalano gli argomenti più dibattuti ed è il protagonista di innumerevoli articoli sui mass media (inevitabilmente battezzato “l’anti-Twitter”), mentre sulla classifica dell’App Store compare, nel momento in cui scrivo, al tredicesimo posto tra i social network.

Se però si va a vedere quali sono i numeri effettivi, si scopre una verità molto diversa dalle apparenze. È lo stesso Eugen Rochko a raccontarla in un post pubblicato sul suo blog, dove specifica come dopo l’annuncio dell’acquisizione di Twitter, Mastodon abbia ricevuto un afflusso di 41.287 utenti, di cui almeno 30mila erano nuovi iscritti.

Un social in miniatura

«È curioso che una della ragioni per cui ho iniziato a studiare il mondo dei social media decentralizzati, che è ciò che mi ha poi portato a creare Mastodon, fossero le voci secondo cui Twitter, di cui ero stato un utente assiduo, potesse essere venduto a un controverso miliardario», scrive Rochko. «Adesso è successo davvero, e per la stessa ragione ci sono masse di persone che stanno giungendo su Mastodon».

30mila nuovi utenti sarebbero briciole per Twitter (217 milioni di utenti quotidiani) o Facebook (quasi due miliardi), ma rappresentano invece “masse di persone” per un social network che dichiara 2,5 milioni di iscritti (di cui soltanto 260mila attivi nell’ultimo mese). E infatti sono bastati questi nuovi arrivi per mettere in crisi Mastodon, causando – per ammissione dello stesso Rochko – «dei problemi di prestazione dei server operati da me stesso a causa dell’afflusso di nuovi e vecchi utenti».

Com’è possibile che un social network venga messo in crisi da poche decine di migliaia di utenti in più? La ragione sta nel funzionamento del tutto particolare di Mastodon.

Per quanto a prima vista sembri una copia di Twitter, in realtà questa piattaforma open source e senza pubblicità si distingue nettamente dai social network tradizionali.

Nessuno infatti ha il controllo su Mastodon, dal momento che qualunque utente lo desideri può aprire una propria sezione (chiamate “istanze” e spesso, ma non necessariamente, dedicate a interessi precisi) e gestirla a piacimento, pagando le spese per i server e senza ricevere alcuna forma di compenso (a meno di non organizzare dei sistemi di crowdfunding).

Al momento ci sono circa 3mila di queste istanze, ognuna delle quali ha completa libertà di varare le proprie linee guida per la moderazione e di decidere quali termini e condizioni implementare. Tutte le istanze, però, possono comunicare tra loro, consentendo di seguire e di interagire con utenti che appartengono ad altre sezioni di Mastodon.

L’istanza più nota è mastodon.social, quella “generalista” in lingua inglese creata dallo stesso Eugen Rochko che può contare su circa 600mila utenti iscritti. Il fatto che i 30mila nuovi arrivi si siano riversati soprattutto qui ha quindi mandato in tilt anche il canale dello stesso fondatore del social network.

Perché Mastodon non può crescere

Questa struttura decentralizzata consente a Mastodon di essere economicamente sostenibile pur non ospitando alcun tipo di pubblicità: come detto, chiunque fonda un’istanza è infatti responsabile della sua manutenzione e del pagamento del server che la ospitano. E come fa allora a mantenersi Eugen Rochko, che si occupa di Mastodon a tempo pieno?

Tutti gli introiti sono garantiti da un nutrito gruppo di sostenitori, che possono donare direttamente dalla pagina dedicata su Mastodon oppure su Patreon, dove al momento circa 700 sostenitori garantiscono un afflusso mensile di poco più di 6mila euro al mese.

Mastodon è quindi una piccola realtà autogestita da volontari, dall’utilizzo non immediato e creata non per seguire celebrità da decine di milioni di follower, ma per riunirsi nelle istanze che trattano nella nostra lingua i temi a noi più vicini. Un luogo spesso descritto come intimo e in cui è davvero possibile creare delle interazioni personali.

In poche parole, Mastodon non funziona nonostante sia piccolo, ma proprio perché è piccolo. Se davvero il successo che alcuni sembrano auspicare si verificasse, andrebbe probabilmente tutto all’aria.

Un volontario in grado di gestire e pagare le spese di un’istanza con qualche migliaio di iscritti non sarebbe ovviamente più in grado di farlo se ne arrivassero milioni.

I costi di gestione costringerebbero inoltre Mastodon a rivedere il proprio modello di sostentamento. Una possibilità potrebbe essere quella di suddividere le spese tra tutti gli iscritti a un’istanza e di organizzare in maniera più articolata la gestione e la moderazione del proprio canale, ma si tratta di una prospettiva ancora distante e dalle molteplici incognite.

Il limite della nicchia

(AP Photo/Gregory Bull)

I social network come Mastodon – decentralizzati, rispettosi della privacy, senza pubblicità, senza proprietari e autogestiti – possono funzionare solo finché rimangono una rispettabilissima piattaforma destinata a una nicchia. Spostarsi in massa non farebbe che ricreare gli stessi problemi e romperne i delicati equilibri. Sarebbe come pensare che la soluzione allo stress della vita metropolitana potesse essere quella di trasferire tutti gli abitanti all’interno di piccole comunità autogestite: non potrebbe mai funzionare.

È un’ulteriore dimostrazione di come sia utopistico immaginare di passare da una piattaforma all’altra ogni volta che riceviamo delle delusioni. Come ha scritto il ricercatore Philip Di Salvo, «è miope pensare che Twitter sia un servizio con delle alternative: è un’infrastruttura sociale cruciale per la sfera pubblica contemporanea, non un supermercato con concorrenti con offerte potenziali migliori».

I pochi veri concorrenti a cui potremmo pensare (con tutte le loro differenze qualitative e quantitative) sono soggetti agli stessi limiti e alle stesse problematiche della piattaforma acquistata da Musk.

L’alternativa al modello attuale non è invadere dei social network di nicchia che funzionano proprio in quanto tali. Una possibilità potrebbe invece essere quella di ripensare da capo la struttura di governance di queste piattaforme, forse ormai troppo importanti per il nostro tessuto sociale per essere lasciate esclusivamente al mercato.

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