Per sopravvivere, il governo di Mario Draghi ha bisogno di un nuovo mandato chiaro e limitato. Che soltanto il premier stesso, d’intesa con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, può definire e proporre ai partiti: prendere o lasciare.

Tutta la storia di Draghi indica l’importanza del limite: soltanto all’interno di un perimetro condiviso da tutti si possono rivendicare pieni poteri e creatività nell’utilizzarli. Più largo il campo d’azione, maggiore il numero degli interessi da comporre e delle resistenze.

Quando il 26 luglio del 2016 Mario Draghi prese l’impegno di fare “tutto il necessario” per salvare l’euro poi specificò sempre «all’interno del nostro mandato». Quello della Bce, cioè difendere la stabilità dei prezzi e l’integrità del sistema finanziario europeo.

Se è chiaro lo scopo, allora poi tutto diventa lecito, anche fare l’impensabile, cioè l’acquisto diretto e virtualmente illimitato di titoli di Stato dei paesi dell’eurozona, in una approssimazione al vietatissimo salvataggio pubblico degli Stati insolventi.

Anche il mandato del governo Draghi era chiaro e limitato: campagna vaccinale e Pnrr, già a dicembre 2021 il premier ha annunciato la missione compiuta. Forse perché pensava al Quirinale, forse perché davvero l’eccezionale maggioranza d’emergenza tra partiti avversari poteva reggere solo con un programma minimo.

Tutto il resto, però, resta ancora da fare, le riforme sono soltanto all’inizio, sul fronte della lotta alle disuguaglianze è stato fatto poco di giusto (bonus 200 euro, decreto Aiuti) e molto di sbagliato (superbonus edilizi, delega fiscale), come ha ricordato ieri Mario Monti sul Corriere.

Ma Draghi come può fare scelte di mediazione politica in un governo che politico non poteva essere?

La presenza di “capi delegazione” di partito in un esecutivo guidato da un tecnico serviva a rendere tutti i componenti della maggioranza corresponsabili delle scelte e a evitare opposizione interna.

Su mascherine, vaccini e bandi di gara ha più o meno funzionato. Ma ora a che titolo Draghi può decidere se la priorità è il taglio del cuneo fiscale, il salario minimo o la riforma delle pensioni? 

La scelta di dimettersi pur godendo della fiducia del parlamento deriva per Draghi da questa consapevolezza: una fase si è chiusa, neppure il più rispettato dei tecnocrati può adempiere a un ruolo tornato politico.

Per questo l’unico modo efficace di interpretare le spinte che da sopra (Quirinale) e da sotto (sindaci, associazioni, corpi intermedi vari) a non abbandonare la guida dell’esecutivo è per Draghi ottenere una nuova fiducia su un mandato limitato e tecnico. Altro non gli si può chiedere e altro non può garantire.

La scelta delle materie non è difficile: garantire continuità di leadership al paese nel contesto della guerra ucraina, proteggere il potere d’acquisto dall’inflazione e prepararsi alla recessione che incombe senza minare la credibilità del debito pubblico (niente nuovo deficit). Sembra poco ma è tantissimo.

Le battaglie più politiche i partiti possono combatterle in parlamento senza coinvolgere l’esecutivo, dallo Ius scholae alla cannabis alla legge elettorale. E spiegare agli elettori cosa intendono fare nella prossima legislatura.

Certo, Draghi e tanti altri protagonisti avevano giurato “mai un Draghi bis”. Ma un discorso programmatico da premier dimissionario e con la fiducia del parlamento potrebbe tradursi nella prosecuzione dello stesso governo con una nuova missione.  Senza violare la promessa che il governo Draghi resti l’ultimo della legislatura.

© Riproduzione riservata