Il coraggio delle idee «controcorrente»: così il generale Roberto Vannacci difende il prodotto della sua fatica letteraria, Il mondo al contrario, che sta facendo discutere la politica e l’opinione pubblica. Nel libro autopubblicato, cresciuto rapidamente nelle classifiche delle vendite online, il comandante dell’Istituto geografico militare (è stato destituito ieri dal comando a causa dello scandalo), già a capo dei paracadutisti della Folgore, definisce non «normali» le persone omosessuali, rivendica le differenze tra «razze», attacca chi è in povertà per i suoi demeriti, si scaglia contro l’attivismo femminista e ambientalista.

Si tratta di un capolavoro di hate speech, di discorso d’odio. Che tuttavia l’autore non solo maschera con una presunta intenzione «provocatoria», ma ammanta di una temerarietà tale da evocare la figura dell’eretico Giordano Bruno: l’audacia di sfidare le imposizioni della «dittatura delle minoranze», del «politicamente corretto», quello che per esempio «ha vietato termini» come «pederasta, invertito, frocio, ricchione». L’ardito scrittore intende dare voce a un sentire dissonante, che si presume diffuso eppure silenziato nel discorso pubblico.

Sul fatto che esista un senso comune avverso alle rivendicazioni di diritti per le minoranze il generale, probabilmente, non si sbaglia. È del resto su questa stessa opinione pubblica che hanno fatto leva la Lega e Fratelli d’Italia per la loro crescita nei consensi: attaccando frontalmente le persone migranti e il mondo femminista e Lgbt+. Molte delle frasi che oggi il ministro della difesa Guido Crosetto bolla come «farneticazioni» sono espressioni appena più «scorrette» di posizioni ben rappresentate nella propaganda delle destre. In particolare, un filo potente unisce quello che Vannacci descrive come il sentimento di essere «fuori posto», di fronte a linguaggi e politiche inclusive, con le retoriche vittimistiche della «discriminazione al contrario», a danno degli italiani, spesso denunciata da Matteo Salvini, Giorgia Meloni, e compagni di partito.

Se pure, tuttavia, simili opinioni potessero contare sulla forza dei numeri, questo toglierebbe loro la qualifica di discorso d’odio? E darebbe al generale il diritto di esprimerle, dalla posizione di alta carica dell’Esercito italiano? Questo no. E per la ragione semplice che il disprezzo per gruppi a rischio di discriminazione, quando si fa parola pubblica, diventa una forma di promozione, incoraggiamento di questi stessi atteggiamenti, capaci di provocare anche comportamenti come soprusi, insulti, minacce.

Non esiste, dunque, un «diritto all’odio» verso le minoranze e i soggetti discriminati, quale Vannacci rivendica richiamando la lezione di Oriana Fallaci. Del resto, non regge nemmeno il parallelo con le posizioni della giornalista e scrittrice, amata dalle destre per le sue posizioni ferocemente anti-islamiche. Fallaci parlava del diritto di «odiare coloro che odiano me», e tali erano per lei i jihadisti, i loro complici e i politici e gli intellettuali troppo accondiscendenti verso quel nemico. Quando Vannacci parla di «diritto all’odio» ciò a cui rivolge il suo sentimento ostile sono invece i gruppi che subiscono le forme più gravi di violenza, sfruttamento, esclusione. Ciò che reclama è il diritto di trattarli come un nemico. E di farlo da una posizione di potere.

Per questo al suo «odio» non può essere data cittadinanza. Non si tratta di censurare le opinioni. Si tratta di impedire che chi rappresenta lo Stato attenti, con le sue parole, all’uguaglianza sancita dalla Costituzione.
 

© Riproduzione riservata