L’emergenza Covid è diventata l’alibi per tutto, invocata ora anche per sbloccare i negoziati sul Quirinale e costringere Sergio Mattarella a rimanere al suo posto. Ma dopo due anni di pandemia, è impossibile sostenere che siamo di fronte a qualcosa di imprevedibile e imprevisto.

A inizio 2020, invece, la pandemia era qualcosa di mai sperimentato, una sfida di politica sanitaria senza precedenti. Eppure questo non può diventare un argomento per assolvere tutti da eventuali errori e negligenze.

Da mesi Francesca Nava, su questo giornale e in inchieste televisive, racconta l’inchiesta della procura di Bergamo sulle prime fasi del Covid e, in parallelo, ricostruisce cosa è successo in quelle settimane cruciali, quando nessuno poteva immaginare i due anni che sarebbero seguiti e i 134.000 morti.

Il lungo articolo che abbiamo pubblicato lunedì ha attirato molta attenzione perché rivelava che la fase finale dell’indagine giudiziaria potrebbe terremotare i vertici del ministero della Sanità, incluso il ministro Roberto Speranza, visto che molti dirigenti si sono contraddetti nelle versioni fornite ai pm.

Sempre gli stessi errori?

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Al netto dell’epilogo giudiziario di questa vicenda, si possono fare alcune considerazioni politiche, che non riguardano la storia ma la cronaca. Perché la minuziosa ricostruzione delle ore cruciali di marzo 2020 permette di intravedere dei problemi nel processo decisionale che non sono mai state davvero curate.  

A ogni evoluzione della pandemia, si ripetono gli stessi errori: la difficoltà di immaginare che le cose possono anche andare molto ma molto male, l’incapacità di scegliere il momento giusto per le mosse impopolari, che arrivano sempre quando considerate politicamente fattibili e non quando necessarie, l’uso strumentale dei tecnici, chiamati a giustificare le decisioni politiche invece che a guidarle.

D’accordo, nessuno aveva mai visto una situazione come l’inizio della pandemia da Covid. E forse è inutile interrogarsi sul mancato aggiornamento del piano pandemico del 2006, visto che praticamente nessun paese tranne la Corea del Sud (scottata dall’epidemia di Mers nel 2014) aveva protocolli di reazioni adeguati. Però l’Italia non era sguarnita: come ha ricostruito Francesca Nava, anche il vecchio piano pandemico del 2006 sarebbe stato utile, meglio affrontare il Coronavirus come fosse una pericolosa influenza che non fare nulla.

E invece, sappiamo ora, i vertici del ministero e dell’Istituto superiore di sanità non solo hanno trascurato quel poco di processi già previsti in caso di emergenza, ma addirittura poi hanno secretato il piano per timore che qualcuno contestasse la scelta (sbagliata) iniziale di ignorarlo.

Insabbiare tutto

Molti, anche se non certo i familiari delle vittime delle mancate zone rosse in Lombardia, avrebbero anche perdonato a Speranza e al primo governo Conte questi errori pur gravi nelle settimane dell’inverno 2020. In quanti potrebbero giurare che avrebbero saputo fare di meglio?

Ingiustificabile, invece, è lo sforzo profuso nei due anni successivi per occultare le responsabilità, per cercare di tenere segreto il più possibile (il governo Conte non voleva pubblicare i verbali del Cts), per dare nelle occasioni pubbliche versioni sui fatti che poi si sono sgretolate all’esame dei magistrati, abbiamo scoperto dagli articoli di Francesca Nava che l’allora premier Giuseppe Conte raccontava versioni false sulle riunioni sulle zone rosse, le date sui verbali delle riunioni erano diverse da quelle che indicava nelle interviste.

Ci sono attenuanti per tutto, insomma, tranne che per il tentativo di confondere l’opinione pubblica, di rendere impossibile tracciare la verità, per cercare di insabbiare le critiche, come quelle del famoso rapporto dell’Oms sparito (e poco importa che l’Oms sia una istituzione screditata, che ha fatto mille errori e ha dimostrato una indulgenza inquietante verso la Cina).

Di fronte all’imprevisto

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Dall’inchiesta della procura di Bergamo non sembra emergere il quadro di un ministero travolto dall’imprevisto, si capiscono invece i meccanismi di una tecnostruttura orientata all’adempimento formale degli obblighi – quelli sul piano pandemico e chissà quanti altri – invece che al risultato che è incaricata di perseguire.

Non si può generalizzare, ovviamente, e ricostruire le responsabilità individuali serve proprio a marcare le differenze tra chi ha agito meglio e chi peggio.

In Italia dopo ogni grande disastro, che sia la pandemia o il crollo del ponte Morandi, seguiamo sempre la stessa dinamica: lo stupore, l’indignazione,  la ricerca di un capro espiatorio, la grande amnistia collettiva.

E invece bisognerebbe analizzare molto più nel dettaglio quali sono i processi decisionali e i controlli incrociati che non hanno funzionato, e modificare ciò che non funziona. Ma la grande auto-assoluzione collettiva è molto più comoda, anche se ci lascia indifesi di fronte al prossimo imprevisto.

Per questo è così importante ricostruire cosa è successo a inizio 2020. Perché la pandemia è l’imprevisto, ma le procedure su come si affrontano gli imprevisti, gli investimenti necessari, e il trattamento da riservare a chi sbaglia si possono decidere con tutta calma, a seconda di quanto rischio siamo disposti ad accettare.

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