Racconto una storia che ho raccolto per caso. Una bambina frequenta due attività pomeridiane, pallavolo e ginnastica artistica. La prima è con una squadra della scuola, dunque con bambini che vede tutti i giorni nei corridoi, la seconda si svolge in una palestra dove vanno bambini che incontra solo lì e che non vede mai per il resto della settimana. La bambina se la cava abbastanza bene in entrambi gli sport, e non ha una passione più forte per l’uno o per l’altro.

Dopo qualche tempo, però, dice ai suoi genitori che non vuole più andare a pallavolo. Il motivo è che ha paura di fare errori, o per meglio dire figuracce. I genitori le chiedono perché la pallavolo le faccia provare questa paura, al contrario della ginnastica artistica.

La bambina spiega che nel caso della ginnastica artistica il fatto di trovarsi con bambini che non vede mai limita il rischio reputazionale: se fai una figuraccia, a quei bambini fondamentalmente sconosciuti non interesserà più di tanto, o comunque non avranno motivo di parlarne al di fuori della palestra.

Se invece fai una figuraccia a pallavolo, cioè con la squadra composta da bambini che incontri ogni giorno in corridoio, il rischio per la tua reputazione è più elevato: «Tutta la scuola mi prenderà in giro».

Faccio notare che questo rischio è teorico: alla bambina non è mai successo di essere presa in giro per una figuraccia durante l’allenamento di pallavolo, e non è mai successo neanche ad altri bambini.

L’ambiente della squadra è leggero e non molto competitivo. Nessuno ha un talento particolare.

Sembra dunque che il problema non sia esterno, ma legato all’immaginazione della bambina, che ingigantisce qualcosa.

Voglio anche far notare che la storia può non sembrare drammatica: non ci sono umiliazioni, non esistono (non sembrano esistere) reali minacce esterne. Eppure mi sembra il tipo di storia che alla lunga scava in profondità e ci racconta qualcosa.

Io la trovo interessante per due ragioni: il perfezionismo e la vergogna. Due parole legate. Il perfezionismo è un tratto del nostro tempo, una forma di scarso senso della realtà che ci porta a cercare ossessivamente il raggiungimento di obiettivi impossibili: non fare errori mai, non farli di fronte agli altri.

Ha una natura ambigua perché deriva da un lato dall’eccesso di autocritica, dall’altro dal desiderio di primeggiare sempre. È il figlio di questi due elementi. 

La vergogna invece nasce da un turbamento. Tutti la proviamo, nessuno può sfuggirle. Qualcuno o qualcosa ce l’ha fatta scoprire inizialmente, e da lì è rimasta con noi.

La vergogna ci fa provare la paura di non essere amati, perché se gli altri dovessero scoprire i nostri ignobili segreti sicuramente non vorrebbero più avere a che fare con noi (pensiamo).

Alla paura reagiamo sotterrando quello che ci fa provare vergogna, nella speranza che questo sia sufficiente a non esporci. Un processo che secondo molti è inevitabile, un rafforzamento che è parte della crescita: farsi venire la pelle dura. In realtà la vergogna potrebbe essere molto utile, ma per renderla utile dobbiamo trasformarla completamente. Come?

Secondo Brené Brown, una professoressa americana che si occupa da parecchio tempo di vergogna, e che è diventata nota anni fa grazie a un TED Talk molto convincente, il superamento avviene esponendoci, accettando di essere vulnerabili.

Nessuno, però, accetta di essere vulnerabile. Questo accade perché pensiamo che se siamo vulnerabili dobbiamo per forza essere avversi al rischio: dobbiamo proteggerci, altrimenti le sollecitazioni esterne ci distruggeranno.

La vulnerabilità però è più interessante di così, e può non avere nulla a che fare con l’avversione al rischio. (Per inciso, faccio notare che quando ragioniamo sul rischio, che si parli di economia o di psicologia, finiamo sempre per fare errori. Non siamo portati a ragionare sul rischio).

In base a una diversa interpretazione, vulnerabilità significa permettere agli altri di vedere finalmente quello che ci fa provare vergogna: dobbiamo scegliere di metterci in una posizione che potrebbe danneggiarci perché pensiamo che così facendo otterremo qualcosa di più grande.

Dobbiamo essere propensi al rischio, non avversi. (Nel caso della bambina: deve prendersi il rischio di fare figuracce a pallavolo perché così facendo forse scoprirà la bellezza dello spirito di squadra e l’amore per quel gioco).

La vulnerabilità in questo senso è un regalo che facciamo anche agli altri: vedendo il nostro coraggio saranno magari ispirati a compiere simili atti di audacia esistenziale.

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