La via d’uscita da questo annus horribilis, la luce in fondo al tunnel, ha un solo nome: vaccino. È la concretezza di questa prospettiva a permetterci di stringere i denti e accettare il prolungamento delle misure eccezionali, nell’attesa che l’immunizzazione di massa ci restituisca il respiro.

Eppure, secondo i sondaggi, solo una minoranza di italiani si dichiara desiderosa di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid. Nel nostro paese, nell’ultimo decennio, il fenomeno dell’“esitazione vaccinale” è cresciuto, insieme alle posizioni apertamente “no vax”, a causa di un’informazione cattiva e distorta, e della crisi di credibilità della scienza e dei saperi esperti.

La questione emerge ora in tutta la sua gravità. Se, come affermano scienziati e tecnici, per ottenere l’immunità di gregge occorre che si vaccini almeno il 60-70 per cento della popolazione, l’obiettivo appare estremamente difficile da raggiungere in uno scenario simile.

Per questo da più parti si chiede che il vaccino sia reso obbligatorio. Non si tratterebbe, nel caso, di un intervento illegittimo. La Costituzione tutela la salute sia come diritto fondamentale dell’individuo sia come interesse della collettività. E di fronte a un virus ad alta contagiosità, la dimensione individuale e quella collettiva appaiono strettamente interconnesse.

Il governo ha deciso però, almeno in prima istanza, di non imporre l’obbligatorietà. Sulla stessa linea, il Comitato Nazionale di Bioetica ha sostenuto che «è sempre auspicabile il rispetto del principio che nessuno subisca un trattamento sanitario contro la sua volontà e, quindi, tendenzialmente la preferenza dell’adesione spontanea rispetto ad un’imposizione autoritativa, ove il diffondersi di un senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della diffusione della pandemia lo consentano».

Resta il problema: che fare se il senso di responsabilità che dovrebbe portare all’adesione spontanea non si diffonde a sufficienza? E in ogni caso, è giusto che solo una parte della popolazione si faccia carico del rapporto benefici/rischi del vaccino, se il rimedio è nell’interesse di tutti e tutte?

Né il liberalismo astratto né il paternalismo medico-sanitario possono qui offrire soluzioni soddisfacenti. È chiaro infatti che non si può difendere la volontarietà dei trattamenti presentando la questione come una “scelta” indifferente tra opzioni ugualmente valide. Parlare di “libertà di scelta” traduce la questione in termini individualistici, rimuovendo l’interdipendenza tra salute propria e altrui. D’altra parte, in un clima di sospetto verso il sapere scientifico, e in mancanza di un senso robusto di responsabilità collettiva, l’imposizione dell’obbligo vaccinale rischia di far deflagrare conflittualità profonde.

L’unica strada percorribile per la politica appare quella della comunicazione. Il commissario Domenico Arcuri ha annunciato in effetti una «campagna di comunicazione massiva». Quella che serve è però una comunicazione che non minimizzi o sottovaluti i dubbi e le paure dei cittadini, né nasconda gli elementi di incompletezza delle stesse conoscenze scientifiche. Non propaganda e paternalismo, dunque, ma chiarezza nell’indicazione di benefici e rischi, trasparenza delle informazioni e accessibilità dei dati.

Norberto Bobbio amava definire la democrazia come «potere in pubblico», decisione alla luce del sole. Ora, di fronte alla sfida dell’antivaccinismo, la dimensione pubblica del dibattito e della decisione è più che mai cruciale. Senza uno sforzo comunicativo e inclusivo, la campagna vaccinale si annuncia un clamoroso fallimento.

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