Difficile fare un fact checking accurato delle proposte di politica economica del centrodestra: non ci sono programmi, simulazioni, stime di gettito e di costo, coperture. Soltanto slogan. Silvio Berlusconi ha proposto una flat tax al 23 per cento? E allora ecco Matteo Salvini che cerca di riprendersi il tema e ne propone una al 15 per cento.

Nessun accenno ai costi, forse nella antica (e mai confermata dai dati) convinzione che meno tassi più incassi, perché l’economia prospera e la gente evade meno, felice di pagare tasse basse.

Appena si cerca di capire meglio di che si tratta si entra in un dedalo di contraddizioni. Su La Verità, per esempio, il capogruppo leghista al Senato Massimiliano Romeo aveva lanciato una proposta diversa, cioè aumento della flat tax per partite Iva da 65.000 a 100.000 euro di fatturato e poi un’altra flat tax sul reddito incrementale (inutile cercare un senso in questa affermazione: se sono due flat tax diverse è una specie di progressività e dunque non è flat se è la stessa tax, che senso hanno gli scaglioni? Boh).

Solo per pochissimi

Berlusconi e Salvini sanno che gran parte degli elettori recepirà il messaggio subliminale dietro l’espressione “flat tax”: le due destre sono in competizione per tagliare le tasse, mentre la sinistra vuole preservarle o addirittura aumentarle. Ma che la flat tax, a prescindere dalla sua effettiva sostenibilità, implichi benefici diffusi è una mera illusione.

Lo dimostrano i numeri citati dall’esperto di previdenza Michele Brambilla sul Corriere Economia, ripresi dalle analisi del ministero dell’Economia: su 41 milioni di italiani che fanno una dichiarazione dei redditi, soltanto 30 milioni paga almeno un euro di imposte. Quindi metà degli italiani non paga l’Irpef (l’imposta sul reddito delle persone fisiche) e dunque non avrebbe alcun beneficio dalla flat tax.

Non un solo euro risparmiato neppure per i tanti italiani che si dichiarano al limite dell’indigenza e che probabilmente hanno un secondo reddito in nero, dunque non tassato: 14,5 milioni di contribuenti che al fisco dicono di avere redditi solo per 3.750 euro all’anno.

Altri 8,1 tra 7.500 e 15.000. Tutti questi non sarebbero toccati dalla tassa piatta di Salvini e Berlusconi, se non in negativo: il calo di gettito (previsto e prevedibile da tutti tranne che dai proponenti) porterebbe o a una riduzione di servizi pubblici o a un aumento del debito.

Ricapitolando: a 52.6 milioni di italiani la flat tax farebbe solo danni, ne avrebbe un qualche beneficio potenziale soltanto il 7,4 per cento. Che è, per definizione, una minoranza che sta relativamente meglio della maggioranza e che al suo interno è comunque composita (chi ha redditi alti di solito non li ha soltanto da lavoro, ma cumula quelli da capitali investiti, da immobili ecc.).

In pochi avrebbero benefici molto significativi, visto che l’aliquota marginale più alta dell’Irpef è oggi il 43 per cento (che si paga sulla parte di reddito superiore a 50.000 euro). Si tratta di decine e decine di migliaia di euro all’anno.

I flop precedenti

La proposta, poi, non è nuova e neppure rivoluzionaria. Visto che circola da almeno vent’anni, ci sono stati parecchi esperimenti in Italia. Tutti fallimentari. Quello più recente è l’introduzione della cedolare secca sugli affitti, cioè l’introduzione della possibilità di tassare il reddito generato da un immobile al 21 per cento invece che far confluire quei redditi nell’Irpef (per i contribuenti con redditi medio-altri significa, in pratica, pagare il 21 invece che il 43 per cento).

La base imponibile è aumentata, quindi un po’ di nero è emerso, visto che siamo passati da 500.000 contribuenti nel 2011 a 2,5 milioni del 2018 con un recupero dell’evasione tra 1 e 1,5 miliardi all’anno. Ma alla fine lo stato ci ha perso. Come è possibile? Perché il nuovo gettito ottenuto da chi ha smesso di affittare le case in nero è stato inferiore a quello perso da chi, in regola da sempre, è passato a pagare il 21 invece che il 43.

Il fisco è una cosa complicata, le scorciatoie non esistono. E lo dovrebbe sapere anche Berlusconi, che già ci aveva provato a introdurre un sistema semplificato e meno progressivo nel 2002: due sole aliquote, 23 e 33 per cento, con una revisione di deduzioni e detrazioni per mantenere una certa progressività ed evitare le accuse di incostituzionalità. Il risultato di questa azione che voleva semplificare è stato un tale pasticcio che nel 2007 il governo di centrosinistra ha dovuto riportare il sistema a cinque aliquote.

L’Irpef è diventata un campo di battaglia tra riforme perlopiù assurde di destra e di sinistra, un disastro: «L’attuale assetto non sembra coerente con alcuno dei modelli teorici di riferimento e la sua complessità sembra derivare piuttosto dal sovrapporsi di modifiche al di fuori di un disegno organico dell’imposta e dalla necessità di realizzare una molteplicità di obiettivi (sostegno alla famiglia, contrasto della povertà e riduzione dell’evasione) che ne rendono difficile la valutazione in termini di equità e di efficienza», scriveva l’Ufficio parlamentare di bilancio in una analisi del 2021.

Ritorno al passato

Se il centrosinistra volesse rispondere all’ormai pluridecennale propaganda di destra che vanta i prodigi (inesistenti) della flat tax, potrebbe proporre di tornare alla versione originaria dell’Irpef, cioè lo schema che è stato in vigore tra il 1974 e il 1982: ben 32 scaglioni, che assomigliano quasi a una tassazione continua invece che a gradini, aliquota marginale minima al 10 per cento (altro che il 15 di Salvini) e aliquota marginale massima del 72 per cento.

E magari riportare nell’Irpef tutti i redditi che ne sono fuoriusciti, a cominciare da quelli derivanti dalla rendita immobiliare.

Di sicuro all’epoca l’Italia non cresceva in media meno di oggi e gli strumenti per combattere l’evasione sono molto più efficaci.

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