Vent’anni fa a manifestare contro la guerra in Iraq c’ero anche io, ricordo l’esame per la patente fatto in fretta e furia perché dovevo correre al corteo di studenti e parlare da un palco improvvisato in piazza Grande, a Modena.

Era giusto protestare contro una guerra ingiusta, tanto confusa nelle motivazioni (armi di distruzione di massa? Supporto di Saddam Hussein ad Al Quaeda?) quanto chiara nel potenziale distruttivo. Oggi mi sentirei molto a disagio a partecipare a manifestazioni pacifiste. In un anno di guerra ucraina le varie anime del pacifismo – quantomeno italiano – hanno mostrato una scarsa capacità di analisi e ancor più debole elaborazione culturale di un messaggio.

Nel 2003 si protestava contro la compromissione dei nostri governi – tutti, ma italiano e inglese in particolare – nel piano manipolatorio per costruire argomenti di cartapesta per giustificare una guerra ingiustificabile.

Oggi la guerra c’è eccome, l’ha innescata Vladimir Putin, e gli ucraini sono disposti a tutto per difendere il proprio paese: l’89 per cento degli intervistati in un report presentato alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza si dice convinto di voler continuare a combattere anche se la Russia usasse un’arma nucleare su una città ucraina. L’83 per cento non si sentirà sicuro finché Putin resterà nel Cremlino.

Contro chi?

Contro chi manifestano, dunque, i pacifisti? Contro Putin – che non è certo turbato dalle bandiere arcobaleno – o contro Volodomyr Zelensky e i suoi bellicosi ucraini disposti a lottare fino all’ultimo uomo (o donna) per non sottomettersi a un regime oppressore che ha iniziato a corrodere la loro nascente democrazia appena Kiev ha scelto di andare verso l’Unione europea (ma non verso la Nato)?

Il messaggio pacifista del 2023 è permeato, come quello del 2003, da massicce dosi di antiamericanismo che in Italia non manca mai, a destra come a sinistra, e da un pervicace rifiuto di tradurre la richiesta di fermare le armi in una strategia di azione.

Anche gli opinionisti in buona fede tendono a innestare le proprie argomentazioni su una premessa falsa: che gli Stati Uniti o l’occidente in generale abbiano il controllo della situazione, cioè che siano Washington o la Nato a decidere se, come e quando passare dal confronto bellico a quello diplomatico. Il fallimento di quasi un decennio di accordi di Minsk, dopo l’annessione illegale della Crimea nel 2014, hanno ampiamente dimostrato che la capacità occidentale di condizionare Putin è limitata.

Sanzioni economiche ed embargo energetico hanno distrutto le prospettive di crescita della Russia a medio termine, ma non hanno innescato (come prevedibile e previsto) un crollo del regime.

I canali diplomatici

I canali diplomatici nell’ultimo anno non si sono mai interrotti, la discussione sul futuro della regione non è affidata soltanto alle armi: l’Unione europea sta provando a esercitare il suo ruolo di superpotenza di pace, presentando il futuro ingresso dell’Ucraina come deciso e irreversibile, così da svuotare di senso l’aggressione putiniana. Ma la guerra c’è, non l’ha innescata l’Ucraina.

E il principio che la Nato e l’amministrazione Biden hanno seguito fin qui è sempre stato «devono essere gli ucraini a decidere il proprio futuro». Se gli ucraini non vogliono sottomettersi, noi dobbiamo soltanto scegliere se sostenerli o abbandonarli.

I pacifisti si presentano come paladini di un ideale, ma in realtà invocano uno spietato realismo politico: se sacrificare Kiev e il Donbass è funzionale alla nostra sicurezza e ad avere bollette più basse, dovremmo farlo subito.

A questa visione se ne contrappone un’altra, per semplicità diciamo “polacca”, che con altrettanto realismo argomenta, forte della storia recente, che una vittoria anche parziale di Putin in Ucraina sarà soltanto la premessa di altri conflitti e sofferenze. L’Italia e l’Unione europea non sono fondate sul pacifismo, ma sulla vittoria in una guerra per la libertà che ha permesso di costruire un progetto di pace.

 

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