Una pesante grata di ferro pesa su un corpo immobile, disteso, impedito non solo nei movimenti ma anche nella scelta su come porre fine alle proprie sofferenze. L’immagine che illustra la campagna per l’eutanasia legale dell’associazione Luca Coscioni contiene il dramma delle storie di dolore e rabbia a cui danno voce le cronache in questi giorni. E a cui la politica oppone un silenzio ostinato.

Mario (nome di fantasia), 44 anni, è la prima persona in Italia ad aver ottenuto il diritto di morire con il suicidio assistito in base alla sentenza 242/19 della Corte Costituzionale.

In assenza di una legge, però, lo stato italiano non si fa carico dei costi dell'assistenza, dunque non eroga il farmaco, non fornisce la strumentazione né il personale, e lascia che i costi – circa 5 mila euro – gravino sul paziente.

Fabio Ridolfi, che di anni ne aveva 46 e da 18 viveva immobilizzato, si è invece arreso di fronte all’apparenza insormontabile dell’iter di autorizzazione. «Vorrei dire alle persone che vivono come me di farsi sentire altrimenti le cose non cambieranno mai», è il messaggio che ha comunicato attraverso un puntatore oculare. «È atroce non poter decidere della propria vita mentre aspetti dei mesi che altri lo facciano al posto tuo».

Ridolfi ha scelto di andarsene con la sedazione profonda. E così ha fatto Antonio La Forgia, ex deputato ed ex presidente della Regione Emilia Romagna, colpito da un tumore inguaribile.

La moglie ha denunciato l’«ipocrisia» a di un paese che, in base alla legge sul testamento biologico, permette a una persona di interrompere le cure «ma non consente di andarsene».

Sono storie che si sono accavallate in giorni in cui l’attenzione della politica è stata volta altrove: al voto di domenica, agli equilibri tra i partiti, al quadro economico che si aggrava, alla guerra.

Un insieme comprensibile di preoccupazioni e urgenze, che tuttavia non giustifica la totale assenza di attenzione a un tema che riguarda, nel senso più letterale, la vita delle persone. La legge sul suicidio assistito, già approvata alla Camera, è ferma in Senato.

Il vuoto causato dall’inerzia del parlamento è ciò che da anni consegna le materie cosiddette “sensibili” principalmente nelle mani dei giudici.

È il processo di “giudiziarizzazione” della politica, che vede le corti supplire all’incapacità di azione dei decisori, attraverso sentenze che applicano criteri di tipo puramente legale.

Così è avvenuto anche con un altro pronunciamento che negli ultimi giorni ha cominciato a produrre i suoi effetti, raddrizzando un torto al capo opposto della linea della vita: la sentenza 131/22 della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo l’automatismo che assegna il cognome del padre a figli e figlie.

Introducendo la possibilità del doppio cognome nell’ordine concordato dei genitori, o quello di uno di loro soltanto, i giudici hanno messo fine a una discriminazione secolare. Hanno però specificato: è compito del legislatore regolare tutti gli aspetti connessi a questa decisione. Anche in questo caso, sul ritardo storico pesa l’inerzia delle camere. 

Il problema è che le scorciatoie non esistono in democrazia. In molti casi – come ha mostrato il caso del referendum sull’eutanasia – è impossibile affidare la risposta alla consultazione diretta dei cittadini. Mentre il ruolo di supplenza delle corti non può colmare il vuoto della deliberazione parlamentare.

I modi in cui veniamo al mondo, e in cui ci è permesso lasciarlo, sono materia politica, sia che la politica se ne faccia carico, sia che decida, come avviene oggi, di continuare a ignorarla.   

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