L’accordo sulla tassazione delle multinazionali firmato giovedì a Parigi, è stato da molti definito storico. Con il cambio di amministrazione gli Stati Uniti hanno messo tutto il loro peso dietro ad un’iniziativa dell’Ocse che si trascinava da anni e sono riusciti a far sì che l’accordo fosse firmato da 130 paesi, tra cui la Cina e tutte le grandi economie (avanzate ed emergenti) del G20. È significativo che tra i nove paesi che si sono rifiutati di firmare appaiano Irlanda e Ungheria, due paradisi fiscali nostrani che però a questo punto si trovano isolati anche tra i partner europei.

I due pilastri della lotta all’elusione

I paesi firmatari hanno raggiunto un accordo su entrambi i pilastri su cui l’Ocse lavora da anni per definire la strategia di lotta all’elusione delle multinazionali. In primo luogo, il principio per cui la tassazione deve almeno in parte essere legata al luogo in cui si svolge l’attività e non alla sede fiscale.

Il compromesso raggiunto giovedì è per certi versi deludente: esso riguarda solo le imprese con un fatturato di almeno 20 miliardi di euro e con una redditività di almeno il 10 per cento; una parte degli utili in eccesso di questa soglia (tra il 20 per cento e il 30 per cento; su questo l’accordo non è stato ancora trovato) saranno tassabili paesi in cui la multinazionale svolge le proprie attività (determinati in base alle vendite) e non dove ha la sede fiscale.

A voler vedere il bicchiere mezzo vuoto si può notare che almeno il 70 per cento dei profitti resteranno tassati secondo le regole attuali, che permettono l’utilizzo di strategie di elusione fiscali (come il transfer pricing, tramite il quale i profitti sono tutti attribuiti alle filiali dove la fiscalità è più vantaggiosa). Tuttavia, da un lato, una volta stabilito il principio, cambiare le soglie numeriche sarà più facile (se si riuscirà a trovare consenso politico): l’accordo già prevede che la soglia dei 20 miliardi sarà portata a 10 tra sette anni. Dall’altro lato, alcune clausole dell’accordo riusciranno comunque a mettere un freno alla cosiddetta ottimizzazione fiscale delle grandi multinazionali. Per esempio, la “segmentazione” consentirà di assoggettare alla regola filiali molto profittevoli di grandi imprese anche se la casa madre non corrisponde ai criteri.

Per citarne una il servizio Amazon Cloud, una gallina dalle uova d’oro, sarà assoggettato alla ripartizione degli utili, anche se la redditività del conglomerato è inferiore alla soglia del 10 per cento.

Il secondo pilastro è quello di un tasso effettivo minimo di imposizione. L’Italia potrà imporre un’aliquota di almeno il 15 per cento sui profitti delle multinazionali italiane attualmente contabilizzati nei paradisi fiscali e sottoposti ad un’aliquota effettiva piu’ bassa del 15 per cento.

Questo significa che queste dovranno versare un’imposta in Italia pari alla differenza tra il tasso che pagano nei paradisi fiscali e il 15 per cento. Qui la parola chiave è “effettiva”, visto che spesso le grandi multinazionali negoziano esenzioni e trattamenti di favore con i paesi ospitanti, che portano a pagare aliquote ben più basse di quelle statutarie.

Ogni paese è lasciato libero di fissare l’aliquota a livelli superiori al 15 per cento e gli Stati Uniti hanno ancora in programma di introdurre una tassazione minima al 21 per cento.

La misura prevede inoltre che  l’Italia possa applicare questa tassazione minima anche ai pagamenti in uscita (per interessi, royalties) dall’Italia verso i paradisi fiscali, per esempio l’Irlanda che non ha firmato l’accordo. L’aliquota minima ridurrà gli incentivi a spostare i profitti verso i paradisi fiscali, e tanto più sarà elevata tanto più sarà efficace.

I paesi più poveri sono i perdenti

Il bilancio per i paesi in via di sviluppo è chiaramente meno positivo.  Come sempre, quando si tratta di fisco, il diavolo è nei dettagli; e per come è stato disegnato, il pacchetto consentirà ai paesi avanzati di appropriarsi di una gran parte del gettito recuperato.

Per dare più benefici ai paesi poveri, quasi mai sedi di multinazionali, l’accordo avrebbe dovuto allocare ben più del 30 per cento dei profitti in eccesso della soglia (e perché mettere la soglia? Quale sistema fiscale nazionale tassa i profitti solo oltre una certa soglia?)

Inoltre, l’allocazione dei profitti  dovrebbe essere fatta in base non solo alle vendite, spesso basse nei paesi in via di sviluppo, ma anche in base a capitale e occupazione (come proposto non solo da molte Ong ma anche dalla Commissione europea). L’accordo avrebbe dovuto inoltre prevedere un tasso minimo ben più ambizioso (molti think tank suggerivano il 25 per cento).

Con questi numeri l’elusione delle multinazionali sarebbe stata ridotta in modo molto più significativo e i paesi più poveri avrebbero avuto entrate fiscali sufficienti ad affrontare le sfide della pandemia e della ripresa.

Infine, ma non da ultimo, molti osservatori hanno notato come ai paesi più poveri sia stato proposto un pacchetto frutto dei compromessi in seno al G7 e inemendabile, che questi potevano solo prendere o lasciare.

Un accordo più ambizioso avrebbe fatto la differenza anche per i paesi più avanzati. L’European Tax Observatory ha recentemente stimato che con l’accordo di giovedì scorso i paesi dell’UE riusciranno a raccogliere circa 50 miliardi in più di introiti fiscali. Se il tasso fosse al 21 per cento come originariamente proposto dall’amministrazione Biden si salirebbe a 100 miliardi (a 170 con il tasso al 25 per cento).

Primo passo

L’accordo sulla tassazione delle multinazionali, pur essendo un compromesso al ribasso e presentando storture da correggere urgentemente, rappresenta un cambiamento di prospettiva per il quale l’aggettivo “storico” non sembra inappropriato: la quasi totalità dei paesi ha accettato di entrare a far parte di un sistema multilaterale teso non tanto ad eliminare la concorrenza fiscale, ma a limitarla e a non farla coincidere con l’elusione da parte dei grandi gruppi multinazionali.

La prospettiva è cambiata e un paese che cerca di attirare le multinazionali facendo dumping fiscale è oggi visto come un problema dalla comunità internazionale.

La prova del fatto che si tratta di un cambiamento epocale risiede nel fatto che quando l’accordo sarà operativo vedremo per la prima volta l’ammontare di profitti sottratti al fisco dalle multinazionali ridursi. Tuttavia, per quando storico, l’accordo deve rappresentare solo un primo passo.

Da un lato una parte ancora troppo importante dei profitti potrà passare tra le maglie della rete; dall’altro, per i paesi più poveri rimarranno solo le briciole delle risorse recuperate. Il bicchiere è mezzo pieno, insomma. Ma il cammino per riempirlo del tutto è ancora lungo.

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