Negli ultimi mesi la Commissione europea ha approvato i primi progetti nell’ambito del Critical Raw Materials Act, la legge del 2024 con cui l’Ue punta a ridurre la dipendenza esterna da materie prime critiche come litio, terre rare, cobalto, nichel e altre risorse alla base di batterie, turbine eoliche, pannelli solari, semiconduttori e tecnologie militari come radar e droni, e quindi indispensabili per transizione verde e digitale, aerospazio e difesa.

L’obiettivo dell’iniziativa, presentata come uno dei pilastri dell’“autonomia strategica” europea, è costruire un’Europa più autosufficiente e sostenibile. Dietro queste premesse si delinea però una nuova corsa all’estrazione, che rischia di sacrificare ambiente, comunità locali e gli obiettivi di una transizione davvero giusta e sostenibile.

Secondo un rapporto del 2023 della Commissione, l’Europa dipende in misura schiacciante da fornitori esterni per la quasi totalità di questi materiali. La Cina controlla oltre il 99 per cento della raffinazione mondiale delle terre rare ed è il principale fornitore europeo per molti altri minerali, mentre il 79 per cento del litio proviene dal Cile. Come dimostra la recente stretta di Pechino sull’export delle terre rare, in una fase di ritorno agli interessi unilaterali, guerre commerciali e restrizioni all’export rendono le catene di approvvigionamento di queste risorse così concentrate geograficamente una fonte di vulnerabilità strategica.

È questa la fragilità a cui Bruxelles cerca di rispondere con il regolamento sulle materie prime critiche, ponendosi degli obiettivi ambiziosi: entro il 2030 almeno il 10 per cento del fabbisogno annuale dell’Ue dovrà provenire da estrazione interna, il 40 per cento da lavorazione e il 25 per cento da riciclo; inoltre, nessuna risorsa strategica potrà provenire per oltre il 65 per cento da un solo paese terzo.

Questi traguardi si accompagnano, almeno sulla carta, a impegni di sostenibilità ambientale e sociale, dalla tutela delle risorse naturali al coinvolgimento diretto dei cittadini. I progetti approvati nel 2025, 58 tra Stati membri e paesi terzi, beneficeranno di procedure di autorizzazione accelerate e di accesso facilitato a finanziamenti pubblici o privati. Tra questi figurano per esempio miniere di litio in Portogallo e in Serbia e impianti di raffinazione di nichel e cobalto in Finlandia.

Quattro progetti di riciclo sono stati approvati in Italia, animati da storici gruppi chimici e minerari come Solvay in Toscana, per il riciclo dei metalli del gruppo del platino, e Glencore in Sardegna, per il recupero di litio e nichel da batterie.

Tuttavia, osservando questa prima fase di attuazione, emergono segnali allarmanti. La maggior parte delle iniziative approvate riguarda l’estrazione o la raffinazione di materie prime, mentre solo una quota marginale è dedicata al loro riciclo o sostituzione. Inoltre, la garanzia dei criteri di sostenibilità appare debole: il rispetto degli standard ambientali e sociali può essere attestato tramite schemi di certificazione privata, spesso poco trasparenti e privi di reali meccanismi di verifica.

A questo si aggiunge un coinvolgimento minimo delle comunità locali, consultate spesso solo formalmente e senza reale capacità di incidere sui processi decisionali, come mostrano le proteste inascoltate contro nuove miniere in Serbia e in Portogallo.

Il risultato è un modello che, trasferendo nei fatti potere e finanziamenti verso grandi imprese e multinazionali minerarie, senza processi di controllo democratico né partecipazione pubblica nella proprietà o nella governance, rischia di legittimare pratiche di greenwashing e alimentare nuove tensioni sociali.

C’è poi un aspetto più profondo e politico: il rafforzamento sempre più evidente del legame tra materie prime critiche e applicazioni militari. La linea che separa il Green Deal dal RearmEu – il nuovo piano europeo da 800 miliardi per sostenere la produzione e la spesa militare – è sempre più sottile. Dietro la retorica della transizione ecologica e digitale e della competitività, l’Europa rischia di trasformare la propria politica delle materie prime in una politica di riarmo, in cui risorse pubbliche e semplificazioni normative finiscono per sostenere filiere che servono sempre più la difesa e sempre meno la decarbonizzazione.

A pagare questo cambio di paradigma saranno le comunità e i territori più vulnerabili, colpiti dalla nocività ambientale dei progetti minerari e da priorità politiche sempre più sbilanciate verso la spesa militare a discapito di quella sociale.

Se l’Unione vuole ancora puntare alla sostenibilità deve abbandonare la spirale estrattivista e militaristica e ripensare la nozione di sicurezza fondata su derisking e riconversione bellica, concentrando al contrario le sue politiche su salute, lavoro e ambiente mettendo al centro le persone e i territori, non gli arsenali.

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