Appuntamento a settembre per prendere atto che bisogna arrendersi. L’Uefa e il suo presidente, l’avvocato sloveno Aleksander Ćeferin, organizzano per il mese prossimo un meeting che enfaticamente viene presentato come fosse dedicato al futuro del calcio ma che in realtà avrà il compito di liquidare il passato recente. E quel passato si chiama Fair Play Finanziario (Fpf), il sistema voluto da Michel Platini all’inizio degli anni Dieci per provare a limitare lo strapotere finanziario dei club tradizionalmente più forti sul piano economico e politico e di quelli arricchiti d’improvviso grazie allo smisurato potere finanziario di oligarchi e sceicchi.

Come ha rivelato un’anticipazione pubblicata dal Times la scorsa settimana, al posto della complessa architettura di regole che pretende di imporre il pareggio di bilancio alle società calcistiche europee, verranno proposte soluzioni importate dal sistema dello sport professionistico nordamericano quali il salary cap e la luxury tax.

Due strumenti efficaci se calati in un sistema di pesi e contrappesi come quello che intorno a essi è stato costruito dalle leghe professionistiche di Usa e Canada, ma che estrapolati e proposti in un contesto completamente diverso qual è quello dello sport professionistico europeo sono una soluzione abborracciata. Però è anche vista come la sola a disposizione dell’Uefa per non dichiarare apertamente il fallimento del proprio progetto più ambizioso e, al tempo stesso, non rompere col suo lord protettore nella guerra contro la Superlega europea: il Paris Saint Germain (Psg).

Mai stato un problema

Già, il Psg. La breve storia del Fpf ha nel club parigino controllato da Qatar Sports Investments (QSI), un protagonista di primo piano. Le tappe principali del fallimento riguardano l’incapacità di condurre entro il governo delle regole la società presieduta da Nasser Al-Khelaïfi e l’altra che nel corso degli anni Dieci è cresciuta economicamente e sportivamente a dismisura grazie al denaro proveniente dalla penisola araba: il Manchester City controllato dalla famiglia regnante degli Emirati Arabi Uniti.

In questi giorni, dopo l’acquisizione di Lionel Messi, è stato interrogativo ricorrente quello che riguarda il modo in cui il Psg potrà rientrare nei parametri del Fpf dopo le abbondanti spese affrontate per rafforzare la squadra durante quest’estate. Interrogativo ozioso che fa finta di ignorare una duplice realtà. La prima: tempo qualche mese e il Fpf non sarà più un problema per nessuno.

La seconda: per il Psg il Fpf, un problema, non lo è mai stato. Nonostante ciò che dicano i fatti, anch’essi letti in via formale, che raccontano del settlement agreement (SA) raggiunto con l’Uefa nel 2014 e di una sanzione da 60 milioni di euro per mancato rispetto dei parametri di bilancio (massimo 5 milioni di euro di deficit nel bilancio annuale, massimo 30 milioni in un arco triennale) e per il tentativo di mascherare la situazione col ricorso a sponsorizzazioni dalle cifre lunari, garantite dall’agenzia di stato Qatar Tourism Authority.

Quei 60 milioni di sanzione, che in realtà erano costituiti da trattenute sui premi Uefa per la partecipazione alle competizioni internazionali, potevano ridursi a 20 milioni in caso di buona condotta amministrativa del Psg lungo un arco triennale.

L’amico Nasser

Quella buona condotta non si è mai vista. Anzi, come ha rivelato Football Leaks, il rischio di sanzioni per recidiva è stato nel 2018 al centro di un lavorio diplomatico fra Psg e la leadership dell’Uefa guidata da Ćeferin. Lo stesso era avvenuto 4 anni prima, quando a seguire molto da vicino le trattative sul SA era stato l’allora segretario generale Uefa, Gianni Infantino, che all’epoca nemmeno immaginava di diventare presidente Fifa.

In entrambe le circostanze è stato straordinario l’atteggiamento di deferenza nei confronti del club parigino, con tanto di indicazioni sulle modalità da seguire date dalla stessa autorità che avrebbe dovuto sanzionare le violazioni. In quel momento era il club a dover essere grato all’Uefa. Ma nel frattempo la ruota è girata in senso opposto. E dopo il fallito tentativo di Superlega la società parigina, che dalla competizione d’élite ha defezionato in modo inatteso dopo esserne stata data per lungo tempo come socio fondatore, è diventata il più potente alleato dell’indebolito Ćeferin.

L’amico Nasser Al-Khelaïfi è stato generoso e dunque qualcosa bisogna dargliela. E allora avanti col progetto di tetto salariale (non più del 70 per cento degli introiti da spendere in stipendi) e con la tassa sul lusso, che in caso di sforamento del tetto salariale permetterà di cavarsela col pagamento di una multa il cui ricavato andrà ripartito all’intero movimento.

Dunque c’è anche un principio di redistribuzione, cosa si vuole di più? Si tratta dello stesso principio da trickle-down economics che era stato propugnato dagli architetti della Superlega. Ćeferin lo aveva schifato, adesso gli tocca farselo piacere.

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