Mercoledì la banca centrale statunitense (la Fed) ha aumentato i tassi a breve dello 0.25 per cento, come previsto prima della guerra ucraina. Ha confermato l’intenzione di aumentarli sei volte nel resto del 2022, portandoli dallo 0.25 al 2 per cento e ha previsto di farli salire anche l’anno prossimo fino a quasi il 3 per cento.

Jay Powell, presidente della Fed, ha anche annunciato che sono in preparazione le delibere per cominciare a vendere i titoli che la Fed ha acquistato negli anni scorsi con il cosiddetto quantitative easing (Qe). Con ciò la Fed avrà “normalizzato” la politica monetaria in circa tre anni, uscendo dalla “trappola” dei tassi ultra-bassi e del QE, che sembrava imprigionarla da diversi anni.

Una trappola alimentata da continua creazione di liquidità, dove i tassi non si possono diminuire perché già minimi né aumentare perché si spaventerebbero i debitori e la borsa.

La decisione assume un rilievo anche perché presa mentre la guerra ucraina colpisce l’economia. Infatti, se da un lato la guerra aumenta ancor più l’inflazione, per il costo delle materie prime e l’interruzione di varie produzioni, dall’altro l’incertezza e il disordine bellici contengono consumi e investimenti e quindi riducono la domanda aggregata e frenano il Pil.

La Fed ritiene che questo secondo effetto non sarà tale da soffocare la rapida crescita in corso che si avvicina al 3 per cento annuo ed è prevista sopra il 2 per cento per i prossimi due anni.

Questa visione non è da tutti condivisa e non sembra esser stata unanime nel comitato della Fed. C’è chi ritiene che crescere bene e con continuità e, insieme, portare un’inflazione prossima al 7 per cento annuo, abbastanza radicata nelle aspettative degli operatori, verso l’obiettivo del 2 per cento, sia un miracolo impossibile.

Chi la pensa così si divide fra coloro che vorrebbero stroncare davvero a tutti i costi l’inflazione, con tassi che crescono ancor più di come annunciato da Powell, accettando un arresto più o meno lungo e grave della ripresa, e chi invece è pronto a sacrificare la stabilità dei prezzi tenendo i tassi più bassi per sostenere la crescita.

A quest’ultima posizione Powell risponde che la crescita duratura è possibile solo con prezzi stabili. Sarà interessante vedere il prossimo andamento dei rendimenti delle obbligazioni con scadenze superiori ai due anni, che riflettono le aspettative di crescita dei mercati nel medio-lungo: se prevarrà chi pensa che il freno all’inflazione sacrificherà la crescita, saranno più bassi e meno crescenti con la scadenza. 

Powell - dice un titolo arguto del Financial Times - ha «canalizzato contro l’inflazione il Paul Volcker che ha dentro di sé». Il riferimento è al gran successo della brusca disinflazione Usa del 1980-83, che però ebbe qualche costo in termini di crescita. Anche la Banca d’Inghilterra giovedì ha continuato l’aumento dei tassi iniziato lo scorso dicembre.

E la Bce? La settimana scorsa ha deciso di interrompere il Qe in giugno, rinviando sine die la vendita dei titoli accumulati fino ad allora. Quanto ai tassi, prevede di cominciare ad aumentarli “qualche tempo” dopo la fine del Qe.

In Europa sia i prezzi che il Pil crescono un po’ meno che in Usa e i rischi della guerra sono maggiori; il passo contro l’inflazione è più lento e lieve. L’essenziale è che non sia più incerto e confuso. Powell non ha voluto che «le nostre decisioni aggiungano incertezza» e ha deciso con chiarezza anche in un momento incerto e difficile come questo.  

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