Pandemia, inflazione, guerra, crollo delle borse, nuova instabilità dei tassi di interesse e dei cambi: le banche centrali, insieme ai governi, stanno affrontando pericolose emergenze.

È in gioco il potere d’acquisto dei redditi e dei risparmi nonché la stabilità finanziaria, cioè il funzionamento sano dei mercati finanziari, con valori di borsa non rigonfi e debitori pubblici e privati credibilmente solventi.

Le banche centrali hanno la stabilità dei prezzi come obiettivo prioritario e stanno decidendo se l’emergenza ucraina giustifichi un rinvio di quella cautissima normalizzazione dei tassi (quelli a breve sono ora quasi a zero o negativi), e della creazione di liquidità con la quale stavano per affrontare il pericolo dell’inflazione. Guardiamo in faccia al problema cercando anche di imparare dal passato.

L’inflazione annua in Usa è stata del 7,5 per cento in gennaio 2022. Per trovare un aumento maggiore dei prezzi al consumo bisogna andare indietro di trent’anni: nel febbraio del 1982 fu del 7,6.

Ma era in discesa: dal picco di ben 14,2 per cento del febbraio del 1980 (quando in Italia era il 20,8 e stava ancora salendo). A fermarla fu Paul Adolph Volcker Jr, il presidente del Federal reserve system (Fed, la banca centrale Usa) che era stato nominato appena sei mesi prima da Jimmy Carter e aveva immediatamente e radicalmente modificato la politica monetaria statunitense.

Oggi, come allora, l’aumento del costo della vita negli Usa è il segno di un fenomeno inflazionistico mondiale, con la quasi sola e strana eccezione del Giappone: nell’euro area e nel Regno Unito l’inflazione è prossima al 6 per cento e sale rapidamente. C’è qualcosa da imparare da Volcker?

Guardiamo prima qualche altro numero americano. In gennaio di quest’anno il tasso di interesse a breve sul mercato monetario, è stato più basso dello 0,1 per cento e perciò, in termini reali, molto negativo: -7,4 per cento; il rendimento dei titoli del Tesoro Usa con scadenza decennale, la base dei “tassi a lungo termine”, è stato dell’1,8 per cento, cioè -5,7 per cento in termini reali. Chi si sta indebitando, anziché pagare, sta “ricevendo”, in termini di potere d’acquisto, una cedola considerevole.

La disinflazione di Volcker

Anche quando arrivò Volcker alla Fed la differenza fra i tassi nominali e l’inflazione era negativa, anche se meno di oggi: -1,6 per cento a breve e 2,8 per cento a lunga.

Quando, sei mesi dopo, l’inflazione cominciò a scendere, i tassi reali a breve erano già positivi e sopra il 2 per cento, mentre a quelli sui titoli del Tesoro a 10 anni occorsero altri nove mesi per superare lo zero.

I tassi a breve nominali raggiunsero niente meno che il 22,4% nel luglio dell’81, 13 punti in più di quando, solo due anni prima, Volcker aveva cominciato la sua azione e di quando la lasciò, nell’agosto del 1987. L’enorme e improvvisa stretta monetaria che stabilizzò i prezzi non fu senza costi per la crescita: nell’ultimo trimestre del ’79 il Pil reale aumentò, in ragione annua, dell’1,3 per cento; nell’80 la crescita si fermò, nel corso dell’anno seguente risalì del 2,8 ma nell’82 fu in media di quasi il due per cento più basso; del 1983 tornò a crescere vivacemente, con tassi annui fra il 3,5 e il sette per cento per sette anni: nel trimestre in cui Volcker lasciò la Fed la crescita fu del 3,3 per cento. Una disinflazione enorme e sostenibile al costo di meno di due anni di crescita. Un gran successo. Come aveva fatto?

Il 1979 fu un anno di svolta per l’inflazione mondiale. Tre date di quell’anno simboleggiano decisioni che cambiarono strutturalmente le politiche economiche che per tre lustri avevano consentito all’inflazione di crescere fino a livelli insopportabili in economie industriali avanzate e sofisticate. Anche se il colpo più duro all’inflazione giunse dall’America, furono gli europei a cominciare la battaglia.

Il 13 marzo entrò in funzione il Sistema monetario europeo che stabilizzò progressivamente i tassi di cambio intereuropei le cui fluttuazioni generavano spirali di inflazione-svalutazione che si autoalimentavano: cominciò un decennio alla fine del quale si sarebbe steso il progetto del trattato di Maastricht che dava alla politica monetaria l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi.

Il 15 maggio la regina Elisabetta insediò il governo di Margaret Thatcher con un discorso al parlamento che conteneva una frase di rilievo per la storia delle politiche monetarie: «La politica economica darà priorità al controllo dell’inflazione con la severità delle politiche monetaria e fiscale».

Cominciò una strada che, tredici anni dopo, condusse il cancelliere dello Scacchiere Norman Lamont a formulare la strategia dell’”inflation targeting” che conferì indipendenza alla Bank of England con l’obiettivo primario del controllo dell’inflazione. Fu il 6 ottobre quando Volcker fece la mossa nel breve più potente.

Uscire dall’angoscia

Era un sabato. Il sabato precedente era andato a Belgrado, alla riunione del Fmi. Aveva messo a punto la decisione con i colleghi della Fed che lo accompagnavano e ne aveva parlato riservatamente con il cancelliere Schmidt e con Emminger, il presidente della Bundesbank, che lo avevano incoraggiato.

Era partito prima della conclusione della riunione del Fondo ma era riuscito a sentire la “Per Jacobsson Lecture” tenuta da Arthur Burns, un suo predecessore alla Fed e uno dei responsabili dello scivolamento della politica monetaria americana verso l’inflazione.

Il titolo della conferenza era drammatico: “L’angoscia delle banche centrali”. Angosciate perché, pur sapendo che cosa andava fatto, non potevano farlo. Erano convinte che per fermare un’inflazione consolidata nelle aspettative la politica monetaria debba produrre una forte recessione, cosa impossibile senza consenso politico. L’indipendenza delle banche centrali ha un limite democratico: lo aveva già detto cinque anni prima Guido Carli e trent’anni prima Luigi Einaudi. Se la Fed avesse voluto stroncare l’inflazione avrebbe “frustrato il volere del Congresso”.

Ma Volcker trovò il modo di farlo, con vantaggio di tutti, non solo in Usa. Tornato a Washington il martedì 2, convocò una riunione straordinaria del direttivo della Fed, in tre giorni preparò il consenso dei colleghi e ottenne una decisione comunicata il sabato 6 pomeriggio con una frase che per i non del mestiere appariva criptica: «Per facilitare il controllo degli aggregati monetari gli interventi della banca centrale porranno più enfasi sulla disponibilità di riserve liquide delle banche che sulle fluttuazioni del tasso di interesse interbancario». Prima di sera fu il presidente Carter a sostenere Volcker affermando la priorità nazionale della lotta all’inflazione.

Traumatizzare le aspettative

In pratica l’annuncio tecnico significava che la crescita della quantità di moneta sarebbe stata frenata qualunque fosse il rialzo dei tassi che avrebbe implicato. Una sorta di “whatever it takes” che, come 33 anni dopo quello di Mario Draghi (che però fu di segno opposto, espansivo), avrebbe avuto successo proprio perché traumatizzava le aspettative, cambiava le regole del gioco, iniettava, come disse ai colleghi della Fed un nuovo “psycological gas”.

arebbe stato impossibile trovar consenso per decidere un rialzo dei tassi a breve di 13 punti in due anni, anche perché la dimensione e il ritmo del rialzo erano difficili da predeterminare. Era invece possibile smettere di finanziare l’inflazione fornendo liquidità in eccesso al mercato.

La dimensione entro cui contenere le riserve bancarie (“stampare moneta”) per ridurre l’inflazione era un numero di milioni di dollari indecifrabile al di fuori dell’ufficio studi della Fed, anche se deliberato con trasparenza.

La gente doveva capire e credere solo che la politica monetaria avrebbe piegato l’inflazione, indipendentemente dal rialzo dei tassi che la contrazione della liquidità avrebbe causato. Un limpido obiettivo di medio periodo e il rifiuto di condividere decisioni di “fine tuning” dipendendo ogni mese dall’arrivo di nuovi dati.

Le decisioni tecniche non dovevano disturbare l’ancoraggio delle aspettative, non dovevano alimentare chiacchiere di giornalisti e politici semi-esperti circa il grado di coerenza del livello deciso dei tassi di interesse coll’ultimo dato sull’inflazione.

Whatever it takes

Oggi le banche centrali sono di nuovo “angosciate” ma non vogliono abbandonare un atteggiamento ufficialmente “dipendente dai dati”. È questa dipendenza che ha fatto perdere il controllo della moneta e del credito poco dopo l’inizio del nuovo secolo.

Il gioco con i dati, della Fed, della Bce e delle altri principali banche centrali, è stato via via meno credibile: che senso ha avuto, nel decennio scorso, sostenere l’opportunità di comprare enormi quantità di titoli di stato con l’argomento che l’inflazione (i cui indicatori sono comunque imprecisi) era poco sopra l’un per cento invece di essere all’obiettivo dell’1,9 per cento?

Se l’obiettivo implicito era evitare il fallimento di governi, banche o imprese, tutti ultra indebitati, bisognava trovare il modo di ufficializzarlo e gestirne insieme ai politici la compatibilità con una duratura stabilità dei prezzi nonché col dovere di limitare meglio gli altri rischi che i mercati finanziari andavano accumulando indebitandosi a tassi nulli o negativi.

È da una posizione già poco credibile che le politiche monetarie, due anni fa, hanno affrontato l’emergenza della pandemia e, prima ancora che fosse finita, quella della guerra. Frenare l’inflazione ora non significa fare annunci circa abili temporizzazioni dell’aumento dei tassi. Occorre che banche centrali insieme ai governi, come Volcker con Carter, scuotano subito, appena l’emergenza lo consente, le aspettative rinnovando radicalmente le strategie di governo della liquidità, come sembrava fossero in procinto di fare poco prima della pandemia.

Per recuperare credibilità vanno convinti i mercati che la liquidità verrà governata in modo da calmierare davvero l’inflazione e garantire una vera e sana stabilità finanziaria. Ovviamente, “whatever it takes”: cioè nuovo rigore nei disavanzi pubblici, nel lasciar cadere i valori di borsa quando gli investitori ritengono inadeguate le prospettive di redditività degli emittenti titoli e nel lasciar fallire, con tutte le opportune assistenze e accomodamenti di breve andare, le banche e le imprese che si indebitano in modo insostenibile.

 

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