Nell’intervista concessa a Lucia Annunziata, il colonnello israeliano Gabi Siboni non sembra preoccupato dalle scontrose relazioni con gli Stati Uniti: «… Andremo incontro ad un’altra crisi con gli americani. E allora? Di crisi con loro ne abbiamo attraversate tante».

È vero: fra Washington e Gerusalemme ci sono stati dissensi ai tempi di Nixon o Reagan, di Bush senior e di Obama.

Ma ora è diverso: non è la stessa crisi di sempre e i dirigenti israeliani farebbero bene ad accorgersene. Prima ancora che in termini politici, l’America è cambiata, antropologicamente e culturalmente. Con essa è mutata anche la vasta comunità ebraica americana.

L’attuale divergenza con Israele è legata ad un’interpretazione diversa del post 7 ottobre e della reazione opportuna. Ma è anche connessa ad una mutata sensibilità che oggi sta conquistando gli Stati Uniti. Non si tratta solo di quello che accade nelle università, con le ripetute manifestazioni di simpatia pro-Palestina sia nel corpo docente che tra gli studenti, un fatto comunque importante e da tener presente. Ciò che davvero è cambiata è la composizione della società: la comunità arabo-americana è cresciuta e conta di più non solo al momento del voto.

Minoranze

Anche Donald Trump dovrà tenerne conto. La cosa ancora più critica è che ad essa si collegano altre comunità e minoranze, inclusa quella afro-americana, che non hanno dimostrato di avere particolari simpatie per Israele e per la sua politica suprematista.

Anche tra i latinos non c’è gran trasporto per lo stato ebraico. La propaganda palestinese contro la colonizzazione e il suprematismo ha fatto breccia in molte collettività e sta ottenendo un impatto. Mentre in Europa le comunità ebraiche sono ancora sotto choc a causa del trauma causato dal pogrom del 7 ottobre, negli Usa la situazione è più variegata.

Basta leggere il New York Times per rendersi conto di quanto sia acceso il dibattito sulle prospettive future sia di Israele che dell’ebraismo globale.

Tra le comunità in Europa non ci si discosta molto dalle decisioni di Benjamin Netanyahu e del gabinetto di guerra; negli Stati Uniti invece si discute e non c’è la medesima unanimità. Paradossalmente negli Usa ad essere più schierata è una parte dei cristiani evangelicali e pentecostali, sempre ultrà in ciò che concerne Israele. I millenarismi dei due mondi religiosi convergono.

Obiettivo prosperità

Davanti a tali trasformazioni l’idea che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca risolverebbe ogni cosa appoggiando l’estremismo di Netanyahu è semplicistica. Anche l’amministrazione repubblicana non potrebbe non tener conto delle mutazioni in atto nella società americana.

Non va dimenticata la vicinanza di Trump con Mohammed Bin Salman, il principe ereditario saudita: entrambi sono convinti che la soluzione in Medio Oriente risieda nella prosperità economica. È dunque molto probabile che – se eletto – Trump provi ad imporre una soluzione pragmatica transazionale legata all’economia.

L’idea dei patti di Abramo era del genero Jared Kushner. MBS e Trump credono che il commercio abbassi le tensioni e rappresenti la vera chiave per sconfiggere Hamas.

Nel fuoco delle passioni belliche i palestinesi si schierano ovviamente con quest’ultima, per orgoglio e spirito nazionalista.

Una soluzione alternativa

Ma se venisse loro offerta una soluzione alternativa alla guerra infinita, sarebbero propensi a cambiare linea. Notiamo ad esempio che in Cisgiordania non c’è stata la sollevazione popolare armata che Hamas aveva previsto e auspicato dopo il 7 ottobre: in molti si chiedono perché perdere tutto per niente.

Ma ciò potrebbe non restare così per sempre se i coloni estremisti continueranno ad angariare i palestinesi cercando di cacciarli dalle loro terre: alla fine ci sarebbe un’altra esplosione ancor più violenta. C’è da credere che la proposta saudita di una striscia di Gaza sotto controllo arabo e internazionale, disarmata ma senza presenza israeliana e del tutto autonoma, sarebbe la più gradita a un Trump alla ricerca di una sistemazione definitiva dell’area.

Non è certo quello che vogliono Netanyahu e i suoi accoliti. Riad sarebbe certamente un partner ideale, lontano dai furori nazionalisti, estremisti e ideologici della polarizzazione attuale tra israeliani e palestinesi. Se nessuno dei due interlocutori è più affidabile, non resta che delegare la gestione dell’area a qualcuno a cui poter dare credito e che ha già dimostrato di saper districarsi tra le numerose trappole dell’area.

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